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Le «trasfusioni» orchestrali di Peter Gabriel

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"Newblood" non è, infatti, il nuovo album di inediti che i fans attendono da una vita (l'ultimo era stato "Up" nel 2002), e che dovrebbe intitolarsi "I/O" oppure "Input/Output": in un decennio Peter ha registrato circa 150 brani, e si confida che quel progetto possa prima o poi vedere la luce. Qui, invece, siamo alle prese con la rivisitazione orchestrale di alcune "canzoni" pescate qua e là nella carriera solista del Nostro, intrapresa dopo lo storico addio ai Genesis a metà degli anni Settanta. Un'operazione già proposta da Sting nel suo "Symphonicity", con tanto di corollario concertistico: dicono sia stato l'ex bassista dei Police a prendere in prestito l'idea al collega, e non viceversa, complici le "manie di lentezza" di Gabriel. Per entrambi, i maligni sospettano che fiati e violini provvedano a coprire la scarsa ispirazione, o i dubbi che attraversano il percorso creativo di rockstar dentro e oltre il confine dei sessant'anni. Ma si potrebbe anche vederla in un altro modo, almeno nel caso di Peter: se nel periodo più illuminato hai corso troppo, aprendo la strada a tanti che sono venuti dopo, se hai esplorato coraggiosamente le possibilità del suono pop e hai diffuso come nessun altro la world music, beh, è comprensibile che poi ti ritrovi con il fiatone e con in testa l'angosciosa domanda "adesso che faccio?". Gabriel la risolve con grazia: "New blood" nasce come continuazione ideale di "Stratch my back", il cd realizzato un anno fa, e dedicato a cover di altri artisti, tutte con arrangiamento orchestrale. Qui invece, dopo aver felicemente collaudato il materiale in tour, ecco che il "nuovo sangue" scorre fluido in "corpi musicali" originariamente innervati da suoni più muscolari, nevrotici, futuribili, presaghi di visioni cibernetiche. Torniamo sui campi maestosi di una classica serenità, con i musicisti magistralmente condotti dalla bacchetta di John Metcalfe: attenzione, non si tratta di un "Greatest hits" (mancano cose come "Sledgehammer", "Biko", "Here comes the flood"), ma la scaletta appare coesa e credibile, affascinante nel suo rigore. L'errore sarebbe tentare un paragone con le vesti world-rock con cui queste "canzoni" erano state concepite all'epoca. Metcalfe ha spiegato che non si tratta di "stravolgimenti, ma di vedere lo stesso panorama da un'altra finestra". E allora ecco che "San Jacinto", privata dei loop elettronici, assume una sembianza ultraterrena, esoterica. E "The nest that sailed away" scorre su dimensioni impalpabili più che nei solchi di "Ovo". "Intruder" e "Darkness" perdono la cifra angosciosa ma ne acquistano una più introspettiva, "The rhythm of the heat" vola via dalle stregonerie, mentre "Red rain" diventa una preghiera da anacoreta nel deserto. In "Don't give up" la cantante norvegese Ane Brun supporta Gabriel con una vocalità ricca di pathos nella sua fragilità (lontana da Kate Bush), mentre per la danza di corteggiamento di "In your eyes" qui non c'è più il basso di Tony Levin ma una profusione di archi. Prima della "traccia fantasma" conclusiva di "Solsbury Hill" (troppo gioiosa per essere messa in lista, anche una parentesi di ambient music con suoni bucolici registrati nella campagna natia di Gabriel, a Bath. Un segno di pace, prima che Peter torni a interrogarsi sulle sue fertili inquietudini.

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