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di Lidia Lombardi «Ludovicus Lantes» sta scolpito sull'architrave di travertino appena sbiancato.

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Piazzadei Caprettari 70, ecco l'ingresso di Palazzo Lante. Dalle finestre la vista è il campaniletto medievale di Sant'Eustachio. Il lato su via del Teatro Valle è protetto dalla cupola borrominiana di Sant'Ivo alla Sapienza. Queste mura appena ridipinte nel color dell'aria sono il contenitore di un intrico di stanze affrescate. E con l'attiguo palazzo della Rovere - ingresso bugnato a via Monterone 85 - forma un «casermone» antico formato da due edifici che apparteneva a una sola famiglia, i Lante, mercanti venuti a fine '500 dalla Toscana e poi - grazie ai matrimoni giusti e alle entrature nella corte papalina - diventati nobili, collezionisti d'arte, proprietari di ville: al Gianicolo, a Bomarzo, a Bagnaia. A ricostruire la storia della famiglia e del doppio palazzo ci ha pensato Rita Randolfi in un prezioso libro appena pubblicato dal Poligrafico dello Stato. Ma le rocambolesche vicende dei Lante della Rovere - nelle quali si è ben inserita la vulcanica Marina Ripa di Meana, in prime nozze appunto Lante della Rovere - si respirano nella fila delle finestre, negli scaloni interni, nelle botteghe sui due lati del palazzo, in via Monterone e in via del Teatro Valle. E sono le vicende di una genia che ha scontato la propria irresistibile ascesa con l'impossibilità finale di gestire il superfetato patrimonio. Il corollario dei debiti che soffocarono i Lante della Rovere è stato lo smembramento del palazzo, l'affitto ai più disparati inquilini. L'ultimo atto negli anni '70, allorché i discendenti Guglielmi Vici vendettero l'immobile agli Aldobrandini Pediconi. I quali lo hanno diviso in appartamenti che ospitano l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l'Ente Italiano della Montagna, gli studi dell'avvocato Virginia Ripa di Meana e dell'architetto Comarch. E, a piano strada, locali raffinati e botteghe artigiane. Sicché al ristorante Eau Vive e all'Enoteca Bleve si alternato il negozietto di ferramenta o quelli degli «sediari», che espongono battipanni di giunco e poltroncine di paglia. Flashback di cinque secoli. Ecco il capostipite Michele Lante, il mercante che conquista a Roma il titolo di marchese. Il figlio Ludovico smette i commerci e compra alcune casette in piazza dei Caprettari. L'erede Marcantonio sposa Lucrezia della Rovere, e lo zio abate pretende l'unione dei due cognomi. Le casette sono sostituite dai due palazzi contigui che cominciano ad essere affrescati e abbelliti, anche con lo zampino del primo porporato di famiglia, il cardinal Marcello. Ci prende gusto l'erede Ippolito. Cede al Papa una parte della villa del Gianicolo in cambio del titolo di duca e del feudo di Bagnaia. Il figlio Antonio sposa l'effervescente Luisa Angelica de La Trèmoille, cognata degli Orsini ed erede di un'altra caterva di oggetti d'arte. Nel palazzo si affresca, si ristruttura, si amplia. Il declino, per debiti, arriva nell'Ottocento. La famiglia langue. Ma il «casermone» blasonato resta. E consola la vista di romani e turisti.

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