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La paura di tornare a fare la fame

Gianpaolo Pansa

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Esce il 4 ottobre il nuovo libro di Pansa. Attraverso la storia della sua famiglia racconta l'Italia derelitta che ha sfondato e quella che ora è sull'orlo del baratro. Eccone un'anticipazione.   La grande paura del Duemila è di ritornare poveri. È il timore nuovo che leggo negli occhi di molte persone. E che affiora sempre più spesso anche dalle loro parole, non appena si comincia ad accennare al futuro. Tanti genitori si chiedono quale sarà la vita che attende i loro figli. A volte m'imbatto in nonni angosciati da quanto potrà accadere ai nipoti. Sono pochi quelli che non si fanno domande. E sostengono di non provare nessuna di queste ansie. Li ascolto con un pizzico di invidia perché non hanno i dubbi che, al contrario, inseguono anche me. È questo il regalo del nostro difficile e torbido inizio degli anni Duemila. Prima una crisi finanziaria globale, poi la crisi economica che riduce molti redditi famigliari, la crescita dei disoccupati, l'obbligo di intaccare i risparmi, i bilanci di molte nazioni a rischio di fallimento. E infine il divampare della questione dei giovani: non trovano davvero lavoro o aspirano a un lavoro impossibile da conquistare? Nei decenni passati le cose non andavano così. Certe paure non avevano ragion d'essere. Me lo conferma la mia storia personale. E soprattutto quella della famiglia dove sono nato e cresciuto. Come leggerete in questo libro, mio padre Ernesto e mia madre Giovanna venivano da un'infanzia segnata dalla povertà. Quella di mio padre, poi, era stata marchiata da una condizione ben più dura: la miseria. Ma entrambi guardavano al futuro con fiducia. Ernesto aveva vissuto i primi vent'anni tra gli ultimi della scala sociale. Mangiando poco. Vestendo panni smessi da altri. Calzando scarpe di ripiego, ottenute grazie alla carità del parroco del paese. E soprattutto iniziando a lavorare da bambino. Quando venne arruolato dall'esercito e fu mandato al fronte nella prima guerra mondiale, era un ragazzo soldato che non aveva ancora 19 anni. Ma toccò il cielo con un dito. Si riteneva fortunato e in Poco o niente scoprirete il perché. Alla mia nascita, Ernesto e Giovanna avevano un lavoro in grado di mantenere se stessi e i figli. Lui era un operaio dello Stato, un guardafili delle Regie poste e telegrafi. Lei era diventata una modista e una pellicciaia provetta. Grazie al suo negozio, guadagnava più di mio padre. Ma anche Giovanna ha faticato tutti i santi giorni, sino alla vigilia di morire. Non si sono mai concessi alcun lusso. Non hanno mai posseduto un'automobile. Non sono mai andati in vacanza. Però hanno sempre avuto una certezza: tanto io che mia sorella avremmo vissuto un'esistenza migliore della loro. Una certezza che oggi molti genitori non possiedono più. Ernesto e Giovanna mi hanno fatto crescere senza obbligarmi ad affrontare nessuno dei sacrifici incontrati da entrambi. Mi hanno messo in mano libri che non avevano potuto leggere. Mi hanno aiutato a frequentare scuole che gli erano state negate. Mi hanno protetto con una generosità illimitata, ma avvisandomi che, da un certo momento in poi, avrei dovuto far conto sulle mie sole forze. Li ho sempre visti felici di potermi offrire una vita tutta diversa dalla loro. Mi incitavano ad approfittare del piccolo benessere conquistato anche per me. Dicevano: guarda che non capita a tutti la fortuna di studiare, devi cercare di meritarti il regalo che hai ricevuto, grazie ai nostri sacrifici. Quando sono entrato all'università, era il 1954 e avevo appena compiuto 19 anni, mio padre stentava a nascondere un orgoglio felice. Mi raccontò: alla tua età ero un soldato ignorante, arrivato appena alla quarta elementare, e stavo al fronte insieme a tanti altri militari uguali a me. Molti erano analfabeti, non sapevano neppure parlare l'italiano, si esprimevano unicamente nel dialetto dei loro paesi. Un piemontese e un siciliano potevano morire l'uno accanto all'altro, nella stessa trincea. Però non riuscivano a capirsi: erano come due stranieri arrivati da nazioni lontane. Soltanto gli ufficiali non erano così. Ma anche tra loro di laureati se ne trovavano pochi. Invece tu, caro Giampa, frequenti l'università. E io potrò vantarmi di avere un figlio dottore! Ernesto mi seguì, passo dopo passo, lungo tutto il percorso di studente universitario. In un taccuino segnava gli esami che avevo superato e il voto ottenuto. Mi resi conto che sapeva tutto del corso di studi al quale ero iscritto. (...). Pretendeva che i miei voti fossero sempre alti. Se dopo una serie di trenta, portavo a casa un ventisette, lo scoprivo deluso. Non mi diceva nulla, però capivo che si era aspettato di più. Venne a Torino per assistere alla mia laurea in Scienze politiche, a Palazzo Campana, la sede delle facoltà umanistiche. Stava per compiere 61 anni ed era la prima volta che metteva piede in un santuario della cultura accademica, un operaio fra tanti professori e studenti. Si preoccupò molto nell'ascoltare il battibecco fra il relatore della mia tesi e il presidente della commissione di laurea. Era il magnifico rettore dell'ateneo, un vero barone, autoritario e stizzoso. Si lamentava delle troppe pagine che avevo scritto. Ma forse non gli garbava l'argomento: la guerra civile nella mia provincia, quella di Alessandria, fra Genova e il Po. Ernesto ebbe il timore che il fastidio del rettore potesse nuocere al mio voto di laurea. (...). Però nella vita si era imbattuto in momenti molto peggiori e decise di restare sino alla fine della cerimonia, confuso tra il pubblico. Quando mi vide premiato con il massimo dei voti e la menzione della dignità di stampa, scappò via di corsa a prendere il treno e ritornò da solo nella nostra città, dove lo aspettava mia madre, assai più tranquilla di lui. Alla sera, quando ci ritrovammo a casa, mi abbracciò dicendomi: una laurea come la tua ti garantirà una vita diversa da quella che abbiamo fatto la mamma e io. La stessa certezza ho avuto nei confronti di mio figlio Alessandro. (...) Non nutrivo nessun timore per il suo futuro. Erano i primi anni Ottanta e non esistevano le apprensioni di oggi. Per un bravo laureato l'avvenire era sicuro. Niente precariato. Un lavoro tutelato da un buon contratto. Uno stipendio all'inizio modesto, ma destinato a crescere con il tempo e l'esperienza. Un percorso professionale aperto a ogni possibilità. Una carriera non facile, che tuttavia poteva condurti in alto. Grazie al merito e senza bisogno di contare sulla protezione di qualche santo in paradiso. I padri di oggi come vedono il futuro dei figli? Sempre più spesso sono indotto a pensare che, nella maggioranza dei casi, non siano in grado di prevedere niente. Tanto che, a volte, non si pongono nessuna domanda perché hanno paura della risposta. (...).

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