Si chiama Norba la città di Ercole
diLIDIA LOMBARDI Le ombre lunghe dell'autunno fanno più imponenti le rovine. Le pietre raccontano una storia fiera, cominciata 2.300 anni fa. Torrioni e mura rimandano a guerrieri. Li immagini scrutare dall'alto la pianura, fino al mare, attenti all'arrivo di nemici e pirati. Lazio arcaico a Norba, arroccata sui Monti Lepini come tanti altri borghi - Cori, Sonnino, Sezze, Bassiano, Sermoneta - nati lassù per sfuggire alla malaria delle paludi pontine. Un'atmosfera da «deserto dei Tartari». Sospesa nel silenzio, increspata dal sospetto dell'invasione, concentrata e pronta alla battaglia. Norba, serrata dalle mura ciclopiche che si estendevano per oltre due chilometri, è stata paragonata a Micene. Qui come nella Grecia di Agamennone, porte arcigne di pietra, fortilizi turriti sistemati su due acropoli che dominavano una piana sconfinata e vuota. Opus poligonale per la cinta muraria di questa che la leggenda vuole fosse la città dei Ciclopi, i giganti europei giunti dall'Egeo all'Italia 1300 anni prima di Cristo. E piace a molti immaginare che fosse nato tra questi cespugli di ginestra e di rovi l'uomo della clava e delle dodici fatiche, Ercole. Non solo pietra a Norba. Ma sfondi di macchia mediterranea mischiata a nerborute specie montanare. La città - che nobilita il comune attiguo, Norma - sorse nel quarto secolo avanti Cristo e combattè Roma con gli Ernici e i Volsci alleati a Tarquinio il Superbo. Una coalizione schiacciata dall'Urbs, al punto da lasciare in mano al nemico diecimila prigionieri. Dopo lo schiaffo Norba pensò bene di stringere con Roma, quella Repubblica che si espandeva senza freni. Ma quando fu il periodo delle guerre civili, la patria di Ercole appoggiò Mario contro Silla. Mario perse e i norbani, pur di non cadere in mano dei vendicatori guidati da Emilio Lepido, incendiarono la città. «Costoro morirono dunque così, da forti», commenta Appiano in Bellum Civile testimoniando il sacrificio di uomini, donne e bambini. Norba divenne una città morta. Vuote le acropoli, il decumano e il cardo. Vuote le quattro porte modellate a secco - la Maggiore, ancora oggi poderosa con il bastione la Loggia, la Segnina, la Occidentale, la Ninfina - e le posterule, per l'andirivieni dei soldati in caso di attacco. Vuoti i templi di Diana e di Giunone, testimoniati oggi dai basamenti insieme a quelli di altri due sconosciuti. E infestati dalla gramigna i terrazzamenti che erano stati realizzati ad arte per contenere il pendio del terreno. Si sta scavando tra le imponenti rovine, suggestive perché isolate. L'impegno è degli archeologi della Università Federico II di Napoli, che hanno transennato un terzo dei ruderi, a ridosso del terrazzamento dell'acropoli minore. Sono venute alla luce domus, porzioni delle terme, tratti di basolato che intersecava il decumano. La storia di Norba riprese quasi ottocento anni dopo, quando Costantino V, imperatore di Bisanzio, donò al papa la città e le terre circostanti, facendone sede vescovile. Poi dal mare vennero i Saraceni. Le mura non bastarono a difendere, Norba si svuotò di nuovo, come in una definitiva maledizione. Ora le dà sostegno Norma. Stradine in salita, vicoli stretti, case medievali e cinquecentesche, scalette che conducono agli usci stretti. Un borgo vassallo dei nobili capitolini, i conti di Tuscolo, i Frangipane, i Colonna, i Caetani del vicino giardino di Ninfa. L'omaggio della città nuova alla città antica è dal 1995 il Museo Civico Archeologico, ricavato nel palazzetto tutto scale, una volta sede del Comune, che ospita anche nel seminterrato un magazzino settecentesco per la conservazione dell'olio, vanto della agricoltura locale. Sopra, nelle teche i reperti, le carte degli escavatori del primo Novecento, come Savignoni e Mengarelli, che datarono le mura di Norba. Poi, il museo virtuale che ricostruisce non solo le due acropoli vicine ma le altre città repubblicane. Dalle finestre strette come feritoie lo sguardo spazia al mare e ai Lepini. E soffia il vento della storia.