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Un anno ricco per l'Arte Povera

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di GABRIELE SIMONGINI Mai prima d'ora, in Italia ma anche a livello internazionale, un movimento artistico è stato celebrato con una tale ricchezza di mostre ed eventi come avviene adesso, quasi paradossalmente visto il nome che porta, per l'Arte Povera. È lo stesso Germano Celant, teorico e «profeta» del movimento, a snocciolare i numeri con orgoglio: «Da settembre fino ad aprile 2012 saranno coinvolte sette città (Bari, Bergamo, Bologna, Milano, Napoli, Roma e Torino), otto musei per complessivi 15.000 mq con oltre 250 opere che daranno conto di un percorso disteso fra il 1967 e il 2011. E tutto ciò verrà a costare, alla fine, circa un milione e mezzo di euro, molto meno di quel che costa spesso una sola grande mostra». Del resto, dice Celant con un sorriso, «la crisi globale ha trasformato il 2011 in un anno povero e quindi è sacrosanto celebrare l'Arte Povera». In ogni caso questo spiazzante movimento nato nel 1967 fra Genova, Roma e Torino è ormai unanimemente considerato il più importante fra quelli nati in Italia dopo il Futurismo e merita pienamente questa rete di celebrazioni che si inserisce nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Per la prima volta, inoltre, grazie all'idea di Celant, si crea un vero sistema connettivo che lega alcuni dei principali musei italiani: dal Castello di Rivoli alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e al MAXXI di Roma, dal MADRE di Napoli al MAMbo di Bologna, fino alla Triennale di Milano, al Teatro Margherita di Bari ed all'intero centro storico di Bergamo alta. Ne saranno protagoniste le opere e le installazioni di grandi artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio, insomma quasi tutto il gotha dell'arte italiana dalla fine degli anni Sessanta in avanti. Del resto, viste le forti individualità, già nel 1972 Celant aveva notato la conclusione dell'Arte Povera come gruppo per diventare una «sommatoria di individualità». «Questo è quello che volevo – spiega il noto critico – una sola mostra sarebbe stata troppo riduttiva per un movimento ramificato tra infinite tecniche e materiali. Ma certo è paradossale che proprio Genova, la città in cui è nata questa corrente e per inciso la mia città, non abbia aderito a questa manifestazione». La contaminazione fra linguaggi diversi è svelata già dal nome di Arte Povera che Celant ha tratto dal teatro di J. Grotowski ed infatti tutti gli artisti del sodalizio, in modi diversi, lavorano per creare un'estetica senza limiti, che in qualche modo ha nel suo dna anche la ricostruzione futurista dell'universo e lo spazialismo di Lucio Fontana, muovendosi con la strategia della «guerriglia» nei territori del teatro, della performance, della fotografia, dell'architettura. E così i «poveristi» hanno prediletto materiali non tradizionalmente artistici, poveri e primari, naturali ed artificiali: legno, pietra, linfa, terra, vegetali, stracci, plastiche, neon, sale, cuoio, scarti industriali. Del resto, l'idea dell'Arte Povera si connette anche alle peculiarità del paesaggio italiano, che nei suoi esempi migliori ha sempre proposto un perfetto connubio fra natura, storia e cultura. Allo stesso tempo questo movimento ha scardinato l'idea di un sistema artistico incentrato solo sul binomio Europa-America per aprire le porte ad un'idea globalizzata di creatività. Come ha scritto Celant l'Arte Povera consiste essenzialmente «nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi». Ne viene fuori tutta l'energia vitale dei materiali visti nella loro concretezza reale e mai rappresentati in modo illusionistico. Un esempio per tutti: i cavalli vivi di Kounellis. Senza dubbio oggi il successo dell'Arte Povera è transoceanico e il mercato dell'arte l'ha trasformata in Arte Ricca. Non c'è niente di male.

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