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Fantastico finire nel Ghetto di Roma

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diLIDIA LOMBARDI Roma sparita resiste ancora qui. E perdonate la contraddizione. Anzi, ce n'è un'altra, di contraddizione. Che la Capitale è autentica proprio dove la separatezza, il muro dovevano snaturarla. Parliamo del Ghetto, di quei pochi metri quadrati che raccontano la città dei Papi anche se Papa Re era il maggiore nemico. Roma racchiude, fagocita uno dei più antichi ghetti del mondo. Nacque 40 anni dopo il primo, creato a Venezia. Ghetto deriva da gheto, che in Laguna significa fonderia. Infatti proprio il quartiere della fonderia divenne la prigione degli ebrei, dei tanti Shylock, fossero mercanti di stracci o di broccato, derelitti o straricchi, capaci di esigere una libbra di carne viva dal poveretto che non riuscisse a restituire i soldi prestati ad usura. Shakespeare scrisse «Il mercante di Venezia» nel 1596. A Roma il «Serraglio» degli ebrei era stato istituito da papa Paolo IV - Giovanni Pietro Carafa - quarant'anni prima, nel 1555. Erano i tempi bui della Controriforma, Santa Romana Chiesa andava difesa con le unghie e coi denti. Contro protestanti, musulmani, ebrei. Così gli israeliti di Roma, il gruppo più antico, discendente dagli schiavi portati dalla Palestina nel II secolo dopo Cristo, meglio calpestarli. Erano tremila, troppi. Il papa emana la bolla Cum nimis absurdum, «Quanto il troppo è inopportuno», e attorno ai tre ettari tra il Teatro di Marcello e l'Isola Tiberina tira su un muro. Ecco il Ghetto, con due porte che s'aprivano all'alba e si chiudevano al tramonto. Un villaggio fatto di vicoli e finestrelle, di umanità ammassata. Ma che inglobava squarci corruschi e imponenti dell'impero. Il Teatro di Marcello era l'ultima quinta. Al centro il Portico d'Ottavia, voluto da Augusto in onore della sorella e sulla tipologia dei portici repubblicani. Ancora oggi lo scorcio dal Lungotevere, con le colonne e il frontone volitivi come un altorilievo scolpito dalle ombre, è più suggestivo perché fa da sfondo alla mole della Sinagoga, invenzione eclettica del primo Novecento, un po' assira-babilonese, un po' liberty. Mai come nel quadrilatero del Ghetto si stratificano epoche e usi. Nell'antica Roma la zona ospitava il mercato del pesce. E proprio tra le colonne del Portico d'Ottavia s'intrufola la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria. Era qui che il pescato, portato sul Tevere dal vicino mare di Ostia, si smerciava e mangiava. Ferree le regole: i pesci più grossi - quelli che eccedevano una lapide di 1,13 metri poi murata nel porticato di Sant'Angelo - dovevano essere consegnati ai Conservatori dell'Urbe dalla testa alla prima pinna. Il resto se lo prendevano le donne ebree. Che da code, lische e lacerti ottenevano un brodo, lo stesso che adesso sfizia i gourmet. Un altro rito era quello del cottìo: ogni notte, alle due, i pesci invenduti erano messi all'incanto. Con grande afflusso di padri di famiglia e comari soprattutto nell'antivigilia di Natale, per preparare a buon mercato la cena di magro. Nel 1875, con la costruzione dei Muraglioni e con l'apertura del Ghetto voluta dai Savoia - ma anche la Repubblica Romana e Napoleone avevano spalancato le porte, diventate nei secoli cinque - l'intrico di viuzze, le case povere vennero abbattuti. Adesso quattro isolati compendiano il quartiere degli ebrei, che è poi il rione XI, il Sant'Angelo, appunto dalla «chiesa del pesce». Ma angoli alla Roesler Franz li ritrovi sul lato destro di via del Portico d'Ottavia, con la sequenza di bottegucce e ristoranti kosher. Piazza delle Cinque Scole - le cinque scuole ebraiche - cinguetta per lo zampillo dalla fontana del Della Porta. La casa rinascimentale di Lorenzo Manili reca l'iscrizione latina. Nel tempietto del Carmelo pare sentire ancora la foga dei predicatori cattolici imposta ogni settimana agli ebrei. I sonetti in giudaico-romanesco di Crescenzo del Monte potrebbero essere il contraltare. O le rime di Giuseppe Berneri in Meo Patacca: «Il Ghetto è un loco al Tevere vicino, / da una parte e dall'altra a Pescaria; / è un recinto di strade assai meschino, ch'è ombroso, e renne ancor malinconia. / Ha quattro grandi portoni e un portoncino; / il dì s'apre, acciò el traffico ce sia, / ma dalla sera inzino al giorno ciaro, / lo tiè inserrato un sbirro portinaro...».

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