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Il Rinnegato alla corte del Sultano

la battaglia di lepanto

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Chissà se si è indispettito, col carattere rigoroso e l'amore per il passato che ha, Pietrangelo Buttafuoco. Perché sul suo romanzo appena uscito per Bompiani, "Il lupo e la luna", che narra all'antica una storia antica, per uno scherzo del destino s'è rovesciata l'attualità. Infatti Buttafuoco ha scelto come protagonista di una narrazione che procede come un "cunto" siciliano (ecco il gancio coi cantastorie e con quel campano Giambattista Basile che nel Cunto de li cunti riprende le gesta borghesi e cortesi del Decamerone), Scipione Cicala, messinese di nobile famiglia fatto prigioniero nella metà del Cinquecento dai pirati musulmani e condotto ad Istanbul, alla corte del sultano, diventandone - educato a dovere e convertito all'Islam - il Prescelto nonché il comandante degli eserciti ottomani. Così la nebbia del passato che Buttafuoco evoca forgiando un linguaggio e uno stile favolistico - il primo indizio è l'incipit di ogni capitolo, con fatto fu che, alla maniera dei cantastorie - si dissolve nel confronto coi titoli odierni del quotidiani. Dove la Turchia che rompe con Israele, incrina il tradizionale laicismo e sgomita per un ruolo leader tra i paesi che pregano Allah, fa evocare a parecchi l'impegno espansionistico che fu dell'impero ottomano. Il quale impero ottomano era però il più multietnico e tollerante che ci fosse. Certo, il nemico numero uno era il Papa di Roma e per questo la corte di Istanbul s'intendeva bene con gli ebrei e con i cristiani ortodossi. Ma anche i cattolici senza la veste da prete erano più che accettati. Anzi, attraverso la pratica della Raccolta - spiegata icasticamente da Alessandro Barbero in «Il divano di Istanbul», recentemente pubblicato da Sellerio» del quale parliamo nella scheda qui sotto - bussava porta a porta nelle case dei cristiani, prelevava i giovanetti più prestanti, li formava culturalmente e militarmente, li introduceva nel Topkapi, li trasformava in giannizzeri, la nuova milizia, i soldati scelti del sultano. E in alcuni casi ne faceva pascià, visir e comandanti degli eserciti e della flotta ottomana. È per filo e per segno la storia di Scipione Cicala. I predoni musulmani lo strappano alle braccia del padre visconte, imprigionato pure lui - il palazzo Cicala non c'è più a Messina, e però c'è a Instanbul, spiega in coda Buttafuoco - lo donano all'imperatore ottomano, lo sottopongono a un'educazione sentimentale e militare. E lui, bello, intelligente, vigoroso, diventa un altro. Si converte all'Islam, muta il nome in quello di Scipione il Cicalazadè, entra nelle grazie del Sultano al punto di essere il suo Prescelto. E siccome ha il coraggio e l'istinto forte di un lupo, gli danno il comando dei giannizzeri di terra e di mare, quelli che solo per imbecillità di un Gran Visir dovettero soccombere nella fatale battaglia di Lepanto. Il serraglio e i mistici dervisci diventano il mondo di Cicalazadè. Ma è dimidiato il suo cuore. Come quello della originaria mitica Sicilia, che è stata calpestata da greci, i normanni, svevi, arabi e da tutti ha succhiato il latte della conoscenza, dei sentimenti, delle fedi. E allora il fiero combattente prono ad Allah, l'uomo di spada che pure laggiù ad Oriente si spende per proteggere il filosofo Tommaso Campanella, diventa preda della nostalgia di quello che era. Gli scorre nel sangue la linfa delle proprie radici. Vagheggia la madre Lucrezia, la sua terra - con la sagoma del monte Altesina in faccia all'Etna - l'amore di una donna assimilata alla luna. Forse gli manca anche il Dio che pregava da bambino. Un'impronta che rivive sulla pelle quando, al ritorno a Messina per darle battaglia dal mare - ennesima scorreria da Rinnegato - incontra il cattolicissimo fratello Filippo. Lo iato tra sentimento e dovere è peggio di una sciabolata. Prevale il senso dell'onore, l'obbedienza al codice morale che fa eroico il personaggio. Un mondo che non c'è più, oggi che domina il pensiero debole. Nell'ultimo capitolo del libro Buttafuoco entra in scena in prima persona. Il cunto di Scipione Cicala l'aveva sentito con le proprie orecchie, da bambino, in una Sicilia anni Sessanta, che adesso pare tanto remota quanto quella di Archimede Pitagorico. Il cantastorie se ne va mentre da un giradischi Geloso parte la canzone di Antoine, La Tramontana. «Così svanì dalla mia mente di bambino fino al giorno in cui, giunto all'età matura, tra libri di Persia e di dottrina, tra le carte di certi saraceni, guidato dalla Sua mano, vidi lampeggiare un nome: Cicalazadè».

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