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di CARMNE MASTROIANNI Irène Némirovsky ed Élisabeth Gille, madre e figlia, due vite sorprendentemente diverse, lontane, eppure irresistibilmente legate fra loro.

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Èdifficile anche solo tratteggiare l'esistenza sconvolgente di queste due scrittrici d'Oltralpe rimaste per troppo tempo escluse dalla rosa dei grandi autori francofoni tradotti in italiano. Finalmente per Irène Némirovsky L'editore Fazi ha pubblicato, arricchendola con una agile prefazione di René de Ceccatty, la struggente biografia scritta dalla stessa figlia Élisabeth, “Mirador. Irène Némirovsky, mia madre” (pp. 359 € 18). Si attendeva questo volume che già al suo primo apparire in Francia nel 1992, presso la Presses de la Renaissance, fece scalpore per la novità assoluta della sua costruzione narrativa. Non era affatto una banale biografia, quanto piuttosto delle “Memorie sognate” – così come rimarcava il sottotitolo titolo originale. È la stessa Irène Némirovsky che parla in prima persona attraverso la penna della figlia. Eppure lo stile e il tono non sono i suoi, eccessivamente aspri e ostinatamente cinici. L'autoritratto è pur “sognato” dalla figlia ed è pertanto teneramente meditato. La Russia è la protagonista indiscussa della giovinezza della Némirovsky, una terra raffigurata come lacerata e variopinta nello stesso tempo. Mosca, Kiev e San Pietroburgo fanno da sfondo alla vita agiata, ma già segnata di Irène, figlia di un ricco banchiere ebreo dell'Ucraina, ma allevata e amata dalla sola governante che fece del francese la sua lingua madre. A Parigi Irène Némirovsky arriva nel 1919 stabilendosi nel vezzoso XVI Arrondissement tra Passy e il Bois de Boulogne. È in quel paradiso artificiale che si appassiona alla letteratura tanto da ottenere la laurea in lettere alla Sorbonne e, solo due anni dopo, a pubblicare il suo primo romanzo: Le Malentendu. Da qui il matrimonio con il banchiere Michael Epstein, la nascita delle sue due figlie, Elisabeth e Denise, la celebrità che la raggiunge, quasi travolgendola, con il romanzo “David Golder”, che troverà subito un volto sul grande schermo nell'attore drammatico Harry Baur. Eppure la Parigi che l'aveva portata al trionfo viene presto oscurata e il giudizio di Irène-Elisabeth è impietoso e senza appello. Il sogno dei bei ricordi si trasforma in un incubo senza possibilità di salvezza. La Némirovsky si raffigura emarginata e dimenticata, tradita dai collaborazionisti di Vichy, rinnegata dai suoi stessi editori. Per “quei cani” da “magnifica slava” era diventata una miserabile “israelita” costretta a cucirsi la stella di Davide sul petto. Il suo cosmopolitismo, un tempo ammirato e osannato, la trascinava nelle camere a gas di Auschwitz dove ben presto l'avrebbe raggiunta anche il marito. Ironia della sorte i carnefici della Gestapo massacravano senza ritegno anche quell'Harry Baur, ebreo, che aveva fatto trionfare al cinema il “David Golder”. Quello di Irène Némirovsky resta un grido forte ed appassionato, una condanna quasi senza appello per la borghesia colta, ma ingenua, che non seppe cogliere i segni premonitori della tragedia che stava per consumarsi nel cuore dell'Europa: la stessa Némirovsky tardò ad accorgersene non avendo quella prontezza d'animo di un Jean Cocteau o di un Paul Morand. La vita di questa “ebrea errante” resta costellata di paradossi proprio come avviene nei sogni, o peggio negli incubi, che tormentano ogni animo umano.

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