Cime tempestose
dall'inviatoa Venezia Dina D'Isa Cime Tempestose. Applausi e qualche fischio per la rivisitazione del celebre romanzo di Emily Bronte, riportato al cinema dalla regista inglese Andrea Arnold con una grande novità: Heathcliff è un nero. Per la prima volta, tra le numerose versioni cinematografiche del romanzo «Wuthering Heights» (Cime tempestose), il protagonista, cui è negato l'amore per la benestante Catherine, che non può sposare per ragioni sociali (visto che lui è un trovatello cresciuto a violenza e odiato da tutti), è stato scelto un attore di colore. «Una scelta voluta - spiega la Arnold - Un modo per sottolineare la diversità tra i due, nel romanzo della Bronte che ho riletto più volte e che mi ha portato all'ossessione per Heathcliff: lui è probabilmente uno zingaro, ma io ho scelto un attore nero per mostrare come la piccola comunità della brughiera mette in atto la caccia al diverso». Alla regista inglese, apprezzata dal pubblico per «Red Road» e «Fish Tank» e oggi in concorso a Venezia 68, trasporre «Cime Tempestose» sul grande schermo è ricordare che «chi viene cresciuto in un modo molto rude e violento da bambino, da adulto sarà sempre un infelice. La natura selvaggia e animalesca è parte integrante del film». Heathcliff e Cathy si tuffano in questa natura, si rotolano felici persino nella torba scozzese e, quando lei (ormai sposa di Mr. Linton) invano mostrerà a tutti la sua passione per Heathcliff, la tragedia: Cathy si lascerà morire nell'impossibilità di amarlo alla luce del sole. Il film rispetto al romanzo, già trasposto al cinema con Laurence Olivier e Timothy Dalton, ha molte differenze: nel finale, dopo la morte di lei, Heathcliff è alla deriva mentre nel libro lui troverà pace solo da morto accanto a lei. I protagonisti sono giovani attori: Kaya Scodelario e Shannon Beer, rispettivamente Catherine adulta e ragazza e gli esordienti James Howson e Solomon Glave (quest'ultimo in conferenza stampa tra le lacrime), Heathcliff adulto e adolescente. In concorso con «Cime tempestose» anche il Giappone post-terremoto con «Himizu» di Sono Sion e il film sorpresa, il cinese «People Mountain Peolpe Sea» di Cai Shangjun. Olmi e l'immigrazione. Mentre sul Lido si diffondeva la notizia del furto dei biglietti de "Il villaggio di cartone" di Ermanno Olmi, il film (fuori concorso e dal 7 ottobre distribuito da 01 al cinema) riceveva commossi applausi in proiezione stampa. Parlando della pellicola, dove una vecchia chiesa sconsacrata diventerà involontariamente luogo di accoglienza per extracomunitari, Olmi ha affermato che «non bisogna inginocchiarsi davanti al crocifisso, che è solo un simulacro di cartone, ma davanti a chi soffre come gli extracomunitari». Il film (con Alessandro Haber e Rutger Hauer) vede il ritorno del maestro alla fiction e mette al centro una Chiesa appena dismessa, che trova la sua vera natura evangelica. Ovvero quella di accogliere, come farà appunto il vecchio prete (Michael Londsale), una ventina di extracomunitari, tra i quali non manca la mela marcia. «Il villaggio di cartone" - dice il regista che torna al Lido dopo 50 anni dal suo debutto con "Il posto" - non è realistico . Ogni presenza è un simbolo, come appunto il ragazzo che aderisce a una brutta scelta e considera l'atto violento come un dovere. Non ci sono solo santi. Non volersi confrontare con gli altri e mettere le bombe è una delle tante debolezze umane. Finché le Chiese e noi stessi non ci ribelleremo, continueremo ad essere solo maschere e non ancora uomini. Quando è vero, il peso dei dubbi deve essere anche superiore alla stessa fede. Occorre sempre avere un muro di dubbi». E facile chiedere "come facciamo tutti nei momenti di disperazione: Dio dove sei?. Troppo comodo. Dobbiamo rispondere noi stessi a questo appello. Siamo tutti fratelli. Se riusciamo oggi a ritrovare questa solidarietà molti problemi del mondo si risolverebbero. Cosa c'é più importante della sacralità dell'accoglienza? - si è poi domandato Olmi mentre qualcuno gli ricordava quanto il Cristianesimo poggi sulla figura umana e divina di Gesù - I simboli sono sempre ambigui. Quando il mio prete fa appello alla piccola scultura delle sacra famiglia che ha salvato dalla sua chiesa dice non a caso rivolto a Gesù: "Non riesco a provare pietà perché tu e la tua sofferenza sono troppo lontani". La Chiesa si deve ricordare più spesso di essere cristiana». Quello di Olmi è il settimo film che parla d'immigrazione, vero e proprio fil rouge di questa edizione veneziana. Dopo «Terraferma» di Crialese, «Cose dell'altro mondo» di Patierno, sono passati in laguna «The Invader» del belga Nicolas Provost con Stefania Rocca, «Io sono Li» di Andrea Segre (che l'altra sera ha ricevuto 10 minuti di applausi raccontando la storia di una cinese sfruttata da Roma a Chioggia), il documentario di Barbara Cupisti «Io sono» e l'unico film italiano della Settimana della Critica, «La-Bas» di Guido Lombardi che ricorda la strage di Castel Volturno, interpretato da extracomunitari doc.