Quando Tasso vedeva il mondo in rosa
diMARIO BERNARDI GUARDI Si trovasse a vivere ai nostri miseri, e un po' miserabili, giorni, Torquato Tasso difficilmente potrebbe trovarvi sostanza per il suo culto dell'eroismo. Nella sua versione al maschile e al femminile visto che nella "Gerusalemme liberata" si trovano eroi ed eroine del braccio e dello spirito e il poeta ne canta le gesta con partecipe commozione. Ma se l'esaltazione della magnanimità è uno dei contrassegni del poema che gli ha dato la gloria, essa si ripropone anche in altre opere come questi due preziosi trattati proposti da "La Vita Felice" ("Discorso della virtù femminile e donnesca"- "Discorso della virtù eroica e della carità", pp. 68, euro 6). Tasso vi pose mano nel 1580, in un periodo difficile della sua vita. Infatti, in pochi anni, se non era precipitato dall'altare nella polvere, quanto meno era, per così dire, tenuto lontano, e con durezza, da quel mondo di corte in cui aveva cercato elette qualità e modelli di stile. Che cosa era accaduto al "gentiluomo" del duca Alfonso II che il signore d'Este apprezzava al punto da elargirgli un ricco stipendio, da farlo mangiare alla sua tavola, da concedergli un appartamento a palazzo, da fare di lui il proprio poeta "ufficiale"? Come mai non gli era più concesso di dedicarsi ai propri studi e di lasciare al proprio estro creativo tutto lo spazio necessario? Dove erano le belle dame che ben volentieri si facevano corteggiare dal celebrato autore delle "Rime", dell'"Aminta" e della "Gerusalemme"? Il fatto è che lo "scriptor optimus" dovette fare i conti con le invidie e le calunnie dei tanti cortigiani non adeguatamente gratificati e per ciò stesso pieni di livore. Avvilito e avvelenato dai sospetti e dai tradimenti, tormentato da mille scrupoli anche a proposito dell'ortodossia religiosa e dell'eccellenza letteraria della sua opera, divenne violento e aggressivo. E alla fine, dopo una serie di anni tormentati, tra fughe e ritorni nella sua Ferrara, dette in escandescenze proprio alla presenza dell'amato Duca, che lo fece rinchiudere nell'ospedale di Sant'Anna. Un "pazzo"? Ad ogni modo, tra gli alti e bassi della malattia, il poeta tenne una fittissima corrispondenza con amici e conoscenti e scrisse la maggior parte dei suoi ventisette dialoghi. Tra cui i due cui abbiamo accennato, rispettivamente dedicati alla Serenissima Signora Duchessa di Mantova Eleonora Gonzaga e al Cardinale Cesareo, fratello dell'Imperatore Rodolfo II. È il primo quello che più colpisce per la sua "novità". Perché Tasso, esplorando il mondo femminile ed analizzandone "tòpoi" ed "exempla", concentra la sua attenzione sulla "virtù regia" di donne "nate di sangue imperiale" e dunque destinate ad affrontare la politica, il governo, il regno, la vita di corte come compiuto ed eletto microcosmo. Tra queste, Eleonora Gonzaga in cui alla bellezza del volto e del corpo corrisponde la bellezza dell'anima, una "virtù" che "agguaglia le virili virtù di tutti i suoi gloriosi antecessori". Tasso, inoltre, distinguendo la "donna regia" dalla madre di famiglia (la vita della prima ha come insegne "la parsimonia" e "l'utile"; quella della seconda "la leggiadria, la delicatura e il decoro"), conclude che la virtù regale "non è l'imperfetta, ma la perfetta virtù, non la mezzana, ma l'intiera virtù". A conferma della sua teoria, il poeta ci presenta un elenco di donne regie, vive o da poco scomparse, che hanno impresso il loro segno- "la virtù cristiana sovrana e perfetta"- nella cultura delle corti: Maria d'Asburgo, Margherita d'Austria, Caterina de' Medici, Renata di Ferrara, Margherita di Savoia, Anna, Lucrezia ed Eleonora d'Este, Vittoria Colonna, fino alle figure, circonfuse da un alone mitico, di Barbara d'Asburgo e Vittoria Farnese. Nell'elenco figura anche Lucrezia Borgia dalla cui immagine, con ogni evidenza, non spirava ancora l'aria sulfurea di peccatrice e avvelenatrice con cui poi è passata nella storia e soprattutto nell'immaginario. Che dire? Di sicuro abbiamo a che fare con delle "protagoniste". In forza del loro rango e del loro ruolo, certo, e di una educazione che dava una "forma" ad ogni atto della loro giornata, ma anche di un'intima persuasione: quella che nell'operare umano, e in questo caso nel modo d'essere di una donna con un alto carico di responsabilità "virili", la differenza lo fa lo stile. Al punto che nulla si perde della "femminilità" che anzi esce potenziata dai compiti cui è chiamata. Bè, si dirà, anche oggi le donne fanno politica, cultura ecc. e "fanno le donne". Già, non è proprio cambiato nulla, no?