Bella lezione «I Masnadieri» di Schiller-Lavia
diMARIO BERNARDI GUARDI Da sempre Gabriele Lavia è attratto dai vertici e dagli abissi dello spirito, e da sempre è convinto che attingere ai grandi autori classici significa illustrarli nella loro "esemplarità". Perché i classici raccontano l'uomo negli entusiasmi ideali e nei conflitti col reale. Lavia ha ragione: tanti testi teatrali scritti appena "ieri" sono precipitati nell'oblio, ma l'"Edipo Re" di Sofocle è straordinariamente attuale. Chissà se Lavia lo riporterà sulla scena. Ma, intanto, a trent'anni di distanza, torna a proporci un capolavoro del romanticismo tedesco come "I masnadieri" di Friedrich Schiller. Il dramma, prodotto dalla Versiliana Festival con il Teatro di Roma e il Teatro Stabile dell'Umbria, è andato in scena a Marina di Pietrasanta in prima nazionale e dall'autunno sarà in tournée (a Roma, in ottobre). Perché Schiller? Perché ci parla ancora oggi. Se si preferisce perché il testo - scritto nel 1781, quando il poeta aveva ventidue anni - è diretto all'uomo di oggi, e ai giovani. "I masnadieri" ti coinvolgono in una sontuosa e macabra festa degli eccessi, in cui tutto - amore, odio, ambizione, crudeltà - è enfatizzato, come se lo spirito, per dar miglior prova di sé, dovesse impegnarsi con la "dismisura", sfidando la mediocrità e il conformismo dei bravi borghesi. Qui tutto è urlato: lo "Sturm und Drang" schilleriano non ci risparmia nulla, quasi volesse sfidare la nostra coscienza ad uscire da ogni bozzolo consolatorio e a compiere traumatiche scelte o forse solo una disperata affermazione per negazione. Quella con cui, nel 1798, diciassette anni dopo "I masnadieri", un altro poeta tempestoso, Ugo Foscolo, sigillerà la tormentata esistenza del suo Jacopo Ortis. Solitario eroe, suicida in nome di un immenso "no" contro la società Nei "Masnadieri" il furore trasgressivo elegge a propria bandiera la vita del fuorilegge, come se l'"anima bella" si investisse di una sorta di diritto a "purificare" il mondo anche attraverso delitto e distruzione. Perché questa è la scelta di Karl Moor. È vero che il giovane è sconvolto per la lettera che gli è arrivata da casa. In essa il fratello Franz - un "mostro" per la deformità fisica, per l'ambizione di diventare padrone della tenuta di Moor e per il desiderio di metter le grinfie su Amalia, la fanciulla amata da Karl - gli comunica che il padre lo ha diseredato. È una menzogna: ma la menzogna partorisce un altro mostro, proprio Karl, capace di delitti atroci, quale quello di fare esplodere una polveriera, provocando una strage di innocenti: donne, vecchi, bambini. Il tutto in nome della solidarietà banditesca: infatti, uno dei masnadieri è stato catturato e bisogna "distrarre" la sbirraglia. È ammissibile una tale protesta contro la società? Non sarà che ciascuno di noi covi i suoi dèmoni e aspetti solo l'occasione di liberarli? Le sequenze della vicenda - Karl tornerà alla dimora familiare, scoprirà la verità, darà sfogo a una vendetta che non risparmierà nessuno - propongono questi ed altri interrogativi, e non li risolvono. Ed è giusto: nessuna morale (e c'è anche qui, a consolazione del pubblico borghese), può spengere l'incandescente materia umana. Lavia mette in scena l'"assoluto naturale" di questo orrore con il suo gruppo di giovani talenti (spicca Francesco Bonomo nella parte di Franz). Rilettura complice e intensa e applausi ben meritati. Anche se, qua e là, la caratterizzazione di certi personaggi, immersi nel nero di scena e costumi, con studiati barocchismi post-moderni, sfiora la caricatura e l'esasperazione del tragico sembra precipitare nel ridicolo. In un gridatissimo arruffìo che mette insieme Shakeapeare e il "Grand Guignol", suggestioni brechtiane e squarci di "pulp fiction". Ma l'arduo cimento con Schiller comporta un rischio del genere. Ed aver accettato la sfida, da uomo innamorato del teatro che conosce trionfi e tonfi, è comunque un segno di coraggio. Ce ne fossero di queste provocazioni di rango!