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Il gioco delle parti

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diLIDIA LOMBARDI Andate a ripassarvi uno dei bassorilievi antichi più famosi. Ara Pacis, lungotevere, a un passo dal Campo Marzio. Nel fregio, una «foto di gruppo», l'istantanea del potere a Roma nel primo decennio avanti Cristo: il corteo della famiglia imperiale. Al centro Ottaviano Augusto e poi la moglie Livia, il fido Agrippa, la figlia Giulia Maggiore, il figliastro Tiberio, i dignitari di corte. Ebbene l'efebico monarca è circonfuso di santità, incede lieve ed esemplare sotto il velo di Ponfice Massimo, la carica più prestigiosa del «vecchio mondo» romano. Un Dio, un saggio, un illuminato signore che ha regalato all'Urbs - per decenni dilaniata dalle guerre civili - un'età di pace. E invece non si tiene a mente «di che lagrime grondi e di che sangue» quell'aureo regime. Con Foscolo lo ripetiamo dopo aver letto il «romanzo» di Luca Canali pubblicato da Bompiani, esplicito nel titolo «Augusto - Braccio violento della storia». Canali - latinista fine ed eccentrico che a un bel punto ha chiuso con le cattedre universitarie e si è dato alla divulgazione - non si fa scrupolo di abbattere il luogo comune attorno al figlio adottivo di Cesare. Disegnando invece il primo princeps di Roma come cinico, mandante di assassini, dispotico e falso. E poi, un insaziabile di sesso, nonostante la facciata moralizzatrice che volle dare, con leggi bacchettone, all'Impero. Allora, la storia ufficiale ci ha ingannato? Ottaviano Augusto era peggiore di Nerone? Più condannabile perché lucido nelle proprie malefatte, al contrario del suo successore, psicologicamente tormentato se non folle? Potrebbero nascere due partiti - innocentisti e colpevolisti - su Augusto e Nerone. Il quale ultimo ha guadagnato posti nella prima fazione anche grazie a recenti saggi, che gli riconoscono una moderna visione dello Stato, doti strategiche e finezza culturale. Gli fruttarono un rapporto saldo con il popolo, tale da procurargli quell'ostilità del Senato che lo indusse al suicidio. L'Augusto di Canali invece tesse la tela dove gli conviene, con l'unico scopo di affermare se stesso. Sì, è l'uomo giusto al momento giusto, perché la lotta per bande del primo secolo prima di Cristo rischiava di azzerare la vocazione dell'Urbs alla guida del mondo. Cesare, che lo aveva adottato, lo sapeva bene. «Ho subito capito che tu eri l'unica persona cui avrei potuto affidare non solo gran parte dei miei beni, ma anche il completamento del disegno politico che ho da sempre avuto in mente». È la lettera-testamento che il condottiero affida al fedele Sceva prima di spirare sotto i pugnali delle Idi di Marzo. Canali - forte di una conoscenza capillare delle fonti - fa della missiva uno snodo drammaturgico del «romanzo». Perché l'irresistibile ascesa dell'esangue Augusto si nutre della dote avuta in eredità, con la quale paga le truppe. E si nutre del colpo al cerchio del Senato e dell'ostile Cicerone e di quello alla botte dei progressisti dell'epoca, i popolari. Quando Sceva gli consegna la lettera di Cesare, Augusto la mette da parte, senza aprirla. È lui al centro del mondo, il passato è passato. Intanto si infila nel letto di tutte, è assetato di sesso, come per sconfessare la debolezza del suo fisico. Diventerà pontifex maximus, la carica religiosa più alta, avvierà una politica moralizzatrice criminalizzando l'adulterio e sferzando gli scapoli. Però lui stesso, sdraiato sull'erba della villa di Sallustio, si unisce in tutti i modi a Livia, una donna sposata. Poi la tradisce con Terenzia, la moglie di Mecenate, il consigliere culturale. Di Livia farà l'imperatrice e lei, che si finge proba, lavora in modo che sia Tiberio, il figlio avuto dal primo consorte Claudio Nerone, a diventare il nuovo princeps. E Nerone, l'assassino della ambiziosa madre Agrippina (che tramava per farlo fuori) e della moglie Claudia (impostagli da ragazzino)? Roberto Giardina - nel saggio in catalogo Electa sulla mostra in corso al Colosseo e ai Fori - ricorda che nessun altro ebbe un precettore migliore, Seneca. E ritira fuori il giudizio di Mommsen: «I primi cinque anni del regno di Nerone furono l'età dell'oro». Certo, uccise il fratello Germanico, secondo prassi nelle famiglie reali. Ma la magnificenza che diede alle arti, il taglio dell'Istmo di Corinto, la rivoluzione urbanistica della valle del Colosseo sono alcuni dei punti fermi di un'esistenza per molti tratti geniale. Roberto Gervaso nel suo «Nerone» edito da Rubettino lo giudica tutt'al più lupo tra i lupi. Sfortunato però, per la demolizione operata da Tacito. Le facce della Storia sono coperte da maschere.

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