L'erbaccia

diROBERTA MARESCI L'erbaccia, metafora del razzismo e dei pregiudizi. Questione di nazionalismo, addirittura di patriottismo estetico, se una pianta ornamentale in un posto, altrove diventa un dannoso invasore. Per un'idea di giardino come dominio personale. È la teoria del botanico inglese Richard Mabey, autore di «Elogio delle erbacce» (Ponte alle Grazie, pag. 350): tutto è dovuto alla rigida separazione che abbiamo creato fra selvaticità e domesticità. Ma qual è il «posto giusto» per una pianta? Prendiamo il farinello comune: migrato dalla sua selvaggia terra natia in riva al mare ai letamai dei coltivatori neolitici, venne coltivato per i suoi semi oleosi. Poi, con il cambiamento dei gusti, divenne un'aborrita infestante di piantagioni come la barbabietola da zucchero (con cui, ironia della sorte, è imparentata). Sembra la rivoluzione copernicana del verde. In realtà è la rivincita degli ultimi, capaci di diventare primi (anche) in giardino. Parola di Mabey, che ha parlato delle erbacce con quell'affetto che si prova nei confronti dei vecchi amici. Tirando in ballo i racconti biblici. Non a caso, le erbacce sono diventate (al pari dei batteri) una categoria biologica e non culturale. Fin da quando la Genesi stabilì che, "spine e cardi", sarebbero stati la punizione per il nostro cattivo comportamento nel Giardino dell'Eden. Uniche nel soffocare culture e spezzare schiene. Capaci di causare avvelenamenti di massa, tanto da guadagnarsi nomi degni delle progenie di Satana. In fondo rappresentano il simbolo di rinascita postbellica, ma anche un segno di debolezza morale o di un difetto, come nel caso dei bambini timidi e gracili che, a scuola, erano così soprannominati, perché inadeguati e smorti. Da esseri capaci di vivere ai margini a indomiti guerriglieri vegetali, la storia delle erbacce è comunque la storia dell'uomo. Perché in comune abbiamo lo spirito di adattamento e quell'istinto di sopravvivenza che dovrebbero indurci a riconoscere in loro delle compagne di vita da amare. Ma questa è una vecchia storia. Eppure, anche la selvaticità può essere vista come sconveniente se si materializza nel posto sbagliato. Un esempio è la stringa, "una pianticella graziosa ma parassitaria, i cui fiori del nativo Kenya vengono sparsi per terra al passaggio dei notabili; nel 1956 approdò nell'est degli Stati Uniti, e da allora riduce in stoppia centinaia di migliaia di ettari di mais. E il poligono del Giappone, introdotto in Gran Bretagna in età vittoriana come elegante cespuglio per i giardini boschivi: è bastato poco più di un secolo perché diventassimo insensibili alle sue delicate infiorescenze e ai graziosi ramoscelli e lo considerassimo la pianta più invasiva del paese. Si è stimato che, per eliminarla dall'area olimpica di Londra, occorrono 70 milioni di sterline. Per ottenere la laurea di infestanti, nessuna di queste specie ha mutato identità: ha solo cambiato indirizzo”. Questi due esempi da soli bastano a cogliere l'ambivalenza e la provvisorietà della lista nera delle erbacce. Malgrado tutto, con molte di esse abbiamo una partnership che assicura benefici reciproci. Le erbacce furono le prime verdure, le prime medicine fai-da-te, le prime tinture. Ma le erbacce sono anche quella grande comitiva di estranei che si presentano dove non sempre sono i benvenuti. E il parallelo tra gli emigrati vegetali e quelli umani in questo caso c'è tutto. Come c'è la fondata preoccupazione per le piante invasive: rimando a una xenofobia botanica. Dove il selvatico s'intrufola nella sfera civilizzata e l'addomesticato fugge e perde il controllo.