di RAFFAELE IANNUZZI Partire da lontano per stanare, da vicino, l'oggetto.
Hapiuttosto a che fare con la massa abnorme delle emozioni e delle reazioni quotidiane, dei gesti senza storia, distratti dalle finalità di un tempo, senza teleologia. Aristotele ha fatto il suo tempo, allora, perché di tempo ne ha avuto e ne hanno avuto, i suoi formidabili esegeti, Scolastica e neoscolastica incluse, per foraggiare eventi e momenti della nostra civiltà. Dunque: ora basta? Se l'"oggetto" non ha altra effervescenza intrinseca che non sia delineata astrattamente dalle emozioni e dalle sensazioni, dal tatto e dal contatto degli esseri umani avvolti dai pensieri e scatenamenti inclusivi di molto altro, la risposta c'è, chiara, netta: stiamo trattando dei "nonluoghi". Da ora in poi, trattiamo questa materia senza virgolette: i nonluoghi. Non esiste più unità di tempo e di luogo, né soggettività e individualità solidamente ancorate a visioni generali, ad una Weltanschauung, una visione del mondo, quale che sia, ma moti e movimenti - flussi, avrebbe chiosato Gilles Deleuze, con ben altra intenzionalità teoretica -, tattilità che rende tattica tutto ciò che avvicina gli individui e li strania, nel medesimo tempo. Uno straniamento di massa è quel cazzeggio e cazzeggiare privo di finalità aristotelica, di tèlos e teleologia, all'antica, che pervade la soggettività traforata dall'emotivismo ruggente di noialtri postmoderni, privi di senno del "post". Rimaniamo, stiracchiati, gli uni vicini agli altri, davanti alla macchina di avatar o con l'ipad rinsecchito in mano, accompagnati da percezioni svariate e svarianti, assumendo - illusione neuroplastica - che di luoghi concentrazionari non si debba più parlare, perché solo di "non" si debba e si possa parlare: «Solo questo sappiamo, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», nei versi di Montale. Si parte da lontano e si sta vicini, prossimi, con nuova declinazione delle leggi della prossemica sociale, che so, a Fiumicino, come, parimenti, al JFK di New York, ovunque, nei grandi contenitori privi di colore e calore umani, ma così decisamente avvezzi a stanare la curiosità di queste formiche senza verità; si sta, insistendo in un'area concentrazionaria, nell'illusione che la realtà sia tutta contenuta in quello spazio. Perché? Ma perché la tecnologia è soggettività autoreferenziale e autonoma, fa legge per conto suo, e detta la peggiore astrazione dopo quella dell'equivalente generale, per dirla con Marx, il denaro: tutto, proprio tutto, è sussunto all'astrazione, e detta astrazione diventa, nella mente degli utenti, la realtà, per ciò che essa possa e debba dare all'umanità. Freud e Le Bon non aiutano, in questo caso, perché non si tratta di psiche collettivizzata, narcisismo o psicologia delle masse, ma di modularità dell'assenza, della corporeità e della stessa fisicità. Non si conosce senza choc, senza urto con la realtà e con le sue contraddizioni. Non si pensa la realtà senza una dialettica precisa e puntuale, senza scontro-incontro con la massa delle percezioni che affollano la mente, ci vuol, dunque, metodo e misura, cammino, percorso, attitudine al contatto vivo e vivido con ciò che è caldo e freddo, insieme: nei non-luoghi, vige, invece, soltanto l'indifferenziato che allontana dalle asperità reali. È l'utopia della rassicurazione permanente, lo scaldaletto dei vecchi adolescenti e dei frigidi cinquantenni a caccia di curiosità facile. Prima c'era l'homo faber, solennemente descritto da Max Frisch ed Ernst Bloch; poi, l'homo consumans, l'oppio dei popoli intellettuali affrancati ormai dalla Scuola di Francoforte; oggi ci troviamo di fronte l'uomo modulare, talmente neuroplastico da essere sradicato dall'identità ferma e certa che definisce l'io. Né ribelle, né avventuriero, consumatore senza eros, pròtesi della macchina di cui non conosce la metafisica immanente, questa maschera senza identità insiste in un perimetro concentrazionario e salta a piè pari la nuda e rugosa realtà, le contraddizioni che la rendono affascinante e spesso non addomesticabile. C'è tutto un girone dantesco di strategie del controllo e del blocco del morso della guerra sociale in questo rincoglionimento di non-io. L'antropologo Marc Augé pensa ai nonluoghi come a scenari di guerra, l'ennesima guerra dei sogni. Nel '900, l'utopia era socialità collettiva elevata a frontiera della conquista del mondo, qualcosa che, da Tommaso Moro a Bronislaw Backzo, si faceva immaginazione trascinante, vocazione di massa e delle masse, "immagini-guida e idee-forza che orientano le speranze e mobilitano le energie collettive" (Backzo); nel nostro secolo, le utopie sono come le lotte degli autonomi degli anni '70, i "gatti selvaggi": schizzano fuori dalle tane e fermano i ritmi del lavoro, per poi lasciar scorrere, sul piano dell'immanenza, il resto di niente. È l'esito ulteriore del nichilismo, lo stop dell'avventura umana e la castrazione dell'avventuriero, che sia passivo o attivo, secondo la distinzione di Pierre Mac Orlan. Il capitale è diventato puro spirito e viaggia sulle piste della finanza perturbante, non c'è più nessun "fight club" da frequentare, dunque vige l'assoluto scarto tra ciò che si vuole e ciò che si fa, è il trionfo del motto coniato dall'autore del romanzo-cult degli anni '90, appunto «Fight Club», Chuck Palahniuk: «la scimmia pensa, la scimmia fa». È finita l'èra dello choc procurato, della lotta dei guerrieri che non intendono mollare la presa della vita, propria e altrui, dunque della storia; non ci sono più lupi della steppa alla Herman Hesse, perché devi fare il figo accanto al tuo simile che chatta con zelo e, magari, cerca adolescenti a buon prezzo per approcci online privi di contatto fisico, onanismo postmoderno, carta di credito inclusa; non c'è più il Ribelle di Ernst Jünger, che cerca e trova la via del bosco, strada impolitica di una salvezza storica, tanto nobile quanto irrisolta. Rimane in piedi soltanto l'alternativa debole al camminare di Thoreau - americano selvaggio e libertario, nobilitato da preziose analisi di Miglio, affascinato dalla pratica della disobbedienza civile -, un ponte storico tra il passeggio metropolitano di Walter Benjamin, nella Parigi, già metropoli, e il decostruzionismo che non lascia più traccia della parola umana alla ricerca della verità. Senza più eroi, né avventurieri attivi, la scena è dominata dai chattatori folli che dimenticano il biglietto dell'aereo accanto all'ipad con il quale fornicano senza generare. Tra le malattie dello spirito, ve n'è una, suggestiva e diabolica, che il filosofo romeno Constantin Noica definisce "todetite o la carenza dell'individuale". Mani che sfiorano il touch screen e ben poco dell'antica, rugosa, scabrosa umanità.