Il Vangelo per una vita felice è quello originale
Mase nella polverosa colonna un titolo colpisce più degli altri, un motivo c'è. "Benvenuti al ballo della vita" (la nostra vita quotidiana e il Vangelo) di Don Giulio Dellavite, edizioni Mondadori, è uno di quelli che si fa notare. Intanto, perché ti domandi subito cosa centra quel polveroso testo sacro con l'adrenalina della musica che rende le nostre esistenze vive e elettrizzanti. Poi, lo leggi con sospetto, ma fai presto a ricrederti. Infatti, le parole di Don Giulio scivolano via veloci e non sono mai troppo insistenti, non risultano, in nessuna parte, accattivanti, sono semplicemente vere. Don Giulio non si è preoccupato di usare per il suo scopo grandi idoli del nostro tempo come Bob Dylan e Shakespeare, e con la stessa leggerezza ha usato le citazioni di Benedetto XVI e di Sant'Agostino. Così alla fine di questo frizzante libro, respiri tutta l'attualità del Vangelo, capisci come nel corso dei secoli ansie, paure e verità hanno solo cambiato forma, ma mai sostanza. Parole di verità che mantengono la forza narrativa grazie ad una costruzione intelligente del volume. Quattro sono le sezioni e i momenti che scandiscono il ritmo del libro: l'incarnazione di cristo, la sua vita pubblica, la passione e resurrezione e la vita della chiesa. E se tutto questo facilita la lettura e la rende scorrevole di certo non è l'elemento che rende questo testo un gran bel libro. Infatti, a vincerti tra le pagine e quel sapore di colloquio privato, di quelli che ricordi da ragazzo con il confessore durante i campus estivi. Sì perché don Giulio racconta quella chiesa del fare, capace di parlare sempre con schiettezza e non mettere mai in secondo piano la vita in tutte le sue sfaccettature. Insomma, in quel salto dal trapezio che la nostra società sta affrontando, Don Giulio ci fa riscoprire Dio come una mano immaginifica pronta a portarci dall'altra parte, così scorrendo le pagine ti senti meno solo in quel volo. Tutto questo con quel linguaggio diretto, senza nascondere la polvere sotto il tappeto, ma raccontando la casa di Dio in verità come nel racconto della pasqua: «Ci sono cose che da bambino si imprimono nella mente e una di queste è l'espressione: "devi fare Pasqua". In pratica "fare Pasqua" significa per molti una confessione rapida e imbarazzata sul "solito niente", una comunione tra l'impacciato e il rassegnato, e poi tutti a casa contenti perché anche questa è andata. È stata pagata la semestrale tassa della religione». Una descrizione che ci prende tutti, ma che non può identificare il modello del buon cristiano e così Don Giulio spiega: «Non basta essere nati cristiani per dirsi cristiani. Ognuno deve riconquistare il proprio rapporto con Dio. "Fare Pasqua" non è il "minimo" del buon cristiano, ma è l'esperienza "massima" del credente".