Violetta «donnaccia» commovente
Tre,e di alto livello. L'Arena di Verona e i suoi trionfi notturni in questa bollente estate che quasi ti folgora ma ti lascia intatti gli incantesimi; la musica di Verdi con l'entusiasmo dei suoi palpiti vitali e il precipizio amaro del destino; e di Verdi, dentro Verdi, dal cuore e dall'immaginario di Verdi, questa «Traviata» che è pienezza d'amore e di dolore, che moltiplica emozioni attraversando il tempo e che, musica e storia, ti chiede una complicità sofferta fino alla resa. L'insegna? La nobiltà della sconfitta. Titolo eletto sul piano delle armi, allorché il vinto abbia sempre conservato il suo onore. Ma vale lo stesso anche nel campo dei sentimenti, dove non è detto che si possa sempre trionfare «insieme», come «coppia». Può infatti capitare che uno dei due debba sacrificarsi. E che addirittura questo sacrificio non basti perché la vita altro ti chiede, per nulla compensandoti delle passate rinunce. È la donna, in genere, ad affrontare queste estreme prove testimoniali. Gli artisti, i letterati ne sono da sempre consapevoli, e rendono onore alla devozione femminile, e a testimonianze d'amore «impossibile» che sanno gridare tutto il vero che c'è nell'intensità, a dispetto della durata. D'amore si muore, per amore si accetta di morire. Marguerite Gautier, la protagonista del romanzo «La signora delle camelie» di Alexandre Dumas figlio (1848), ispirò Giuseppe Verdi per la sua «Traviata» perché il «Cigno di Busseto» cercava una «storia esemplare» che raccontasse questo tipo di esperienza. Al tempo stesso, però, Verdi si voleva cimentare in una rappresentazione d'ambiente: e il mondo equivoco della cortigiana di lusso gli dava l'occasione per raccontare, con realismo, miti e riti di una società ricca e corrotta. Corrotta è anche lei, Marguerite (che Verdi trasforma in Violetta) e il «sempre libera degg'io folleggiar di gioia in gioia» è in qualche misura dichiarazione di intenti e bandiera di questo sfrenato libertinaggio. Ma ecco l'incontro con Armand (nella «Traviata», Alfredo) e la domanda: c'è un piacere più grande del puro piacere? E qui è facile giocare con la parole: il piacere più grande, il piacere veramente puro ed assoluto, proviene dall'amore. Non più mercenario, ma - ora l'insegna salvifica è l'«Amami Alfredo!» - sincero e generoso. Al punto che la malattia stessa di cui Marguerite soffre - la tisi, ottocentesco malanno sociale, che colpisce egualmente ricchi e poveri: si pensi alla Mimì della pucciniana «Bohème» - pare per qualche tempo ritrarsi. Salvo riesplodere in tutta la sua virulenza allorché la nuova vita- quella davvero ricca di senso - subisce l'urto della moralità borghese: il padre di Alfredo, Giorgio Germont, che teme scandali devastanti per il buon nome della famiglia, viene infatti a chiedere a Violetta di sacrificarsi per restaurare l'«ordine» minacciato. Così, il circolo virtuoso, appena inaugurato, si spezza brutalmente. Non solo a causa dell'egoismo del «bravo papà» che dinnanzi alla generosità di Violetta si commuove ma non recede di un passo dalla sua richiesta, ma anche per colpa dell'inadeguatezza di Alfredo per cui ciò che conta è l'orgoglio ferito. Insomma lei, la «donnaccia» non riabilitata, la «donnaccia» che lo ha mantenuto, si merita soltanto una pubblica scenata, con tanto di soldi lanciati in faccia come si fa con la peggiore delle prostitute. Sapori «forti», non c'è che dire. Noi li abbiamo gustati nell'interpretazione di Lana Kos (anche se la star della stagione è Ermonela Jaho), efficace sia dal punto di vista recitativo, sia da quello propriamente lirico (è vero che un paio di volte la voce ha «sgranato», ma il resto la riscatta appieno). Poco convincente ci è apparso invece l'Alfredo di Giuseppe Demuro: dov'è il tempestoso «eroe» romantico che brucia d'amore, di rabbia e di pentimento? Un po' ingessato anche il Giorgio Germont di Vladimir Stovanov. Suggestivo il nuovo allestimento con la regia, le scene e i costumi di Hugo De Ana; buone la coreografia di Leda Lojodice e la direzione d'orchestra di Carlo Rizzi.