Caro Settis, i beni culturali non sono totem muti
Ieri si è infiammato il dibattito sull'impegno dei privati a sostegno dei beni culturali. E l'altro ieri, nella cavea del Colosseo, l'imprenditore Diego Della Valle ha illustrato con il sindaco di Roma e il ministro Galan come - mettendo a disposizione 25 milioni di euro - permetterà allo Stato di restaurare il più famoso monumento del mondo. Insomma, dei nostri parchi archeologici, chiese, ville storiche, panorami ci facciamo finalmente l'idea che devono essere protetti, vissuti, usati nel modo più virtuoso e con un'intelligenza imprenditoriare perché sono la nostra ricchezza. Non la ricchezza di belle menti. Ma di chi deve trovare lavoro, di chi si prepara al domani. Rovesciando una grossolana uscita del ministro dell'Economia - che pure ci salva dalla crisi che ha colpito altri paesi del Sud Europa - diciamo che se fatta fruttare «la cultura si mangia». Ecco che allora risulta superata una visione rigidamente statalista dei Beni Culturali. Salvatore Settis, storico dell'arte finissimo, per undici anni direttore della Scuola Normale di Pisa e fino a qualche tempo fa presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, è il campione di questo modo di vedere. Come non ricordare il suo j'accuse al dicastero del Collegio Romano su certe gestioni aperte agli sponsor? Come non sottolineare la battaglia contro il commissariamento dei Fori Romani e del Colosseo? E come non ritirare fuori dallo scaffale delle biblioteche il suo «Italia Spa», con la diffidenza intransigente per la gestione di tipo imprenditoriale dei Beni Culturali? A Settis dedica ora un pamphlet Luca Nannipieri, direttore del Centro Studi Urbanistici dell'Abbazia di San Savino, in Toscana, uno di quei luoghi del cuore che fa unica l'Italia. Nel libro, «Salvatore Settis. La bellezza ingabbiata dallo Stato» Nannipieri adotta uno dei tipici modi di procedere della retorica e della confutazione. Elenca i meriti dello studioso Settis, concede che nessuno come lui ha spiegato che l'identità dell'Italia è data dal suo patrimonio di bellezze artistiche, monumentali, paesaggistiche. Riconosce il vigore civile delle sue argomentazioni. E gli dà ragione quando si àncora all'articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Concesso ciò, arrivano gli affondi. Settis è così infarcito di statalismo da perdere di vista la persona. Per lui a difendere castelli e borghi, dipinti e conventi è solo un «sistema di norme sulla tutela e sulla conservazione». Anzi «è in Italia che è nata l'idea che la protezione dei beni culturali deve essere regolata da norme e leggi pubbliche». Ne consegue che solo ciò che è certificato da una gerarchia statale garantisce il Bel Paese. Ecco allora la schiera degli specialisti che lobotomizzano, loro e soltanto loro, quella chiesa, quel dipinto. Ecco i convegni ai quali sono ammessi a parlare soltanto una stretta cerchia di esperti. Insomma, per Settis, «che esemplifica buona parte del pensiero del Novecento», prima di tutto viene «la struttura». Anzi «dà valore soltanto a quelle realtà, situazioni, personalità che sono riconosciute dalla struttura». Ovvero, ministeri, università, sovrintendenze. E associazioni o fondazioni accettate dalla struttura. Perfetto, si dirà. Ma così si ingessa il Bel Paese. Si disconosce che una pieve romanica vive perché ogni domenica apre le porte agli abitanti del posto. Che le maestre vi conducono gli scolari. Che «un laureato precario, un parroco, una piccola comunità di emeriti sconosciuti stanno salvando quella pieve dandole senso e centralità nella loro vita». Ne consegue che la vera identità è vicinanza. Chi frequenta quei luoghi - sostiene Nannipieri - «fa sì che la domanda di senso che quel luogo incarna con il suo stesso esserci diventi una domanda di senso e di significato nella loro vita e nella vita dei loro cari». Il disinteresse per ciò che non è struttura riconosciuta fa incarnare a Settis «i metodi e i paradigmi interpretativi della grande costruzione filosofica di Marx. Insomma, «per Settis il Colosseo è un bene in sé». Nannipieri pensa il contrario. «Un quadro di Raffaello è un bene solo quando lo proietti nel confronto vivo con la tua esperienza». Se il Bel Paese fa parte del proprio vissuto è normale rispettarlo. E farne una chanche di sviluppo per l'Italia.