di LIDIA LOMBARDI Michel de Montaigne è così spesso citato da essere chiamato tout court Montaigne.
Eppurelui nel mondo fu impelagato: studiò da giurista, entrò nel Parlamento della sua città, Bordeaux, nonché nella corte del re, Carlo IX, sballottato dalle Guerre di Religione. Ma andò e venne dagli scranni e dalla Francia, attento a difendere il pensiero cristiano. Eccolo chiuso in una torre a scrivere i tomi dei Saggi. Eccolo a mediare tra il cattolico Enrico III e il protestante Enrico di Navarra. Eccolo in viaggio per l'Europa e l'Italia. E poi sindaco di Bordeaux, per due mandati consecutivi. Bè, si dirà, perché tanta attenzione al severo signore con gorgiera vissuto più di 400 anni fa? Perché s'intrufola nel nostro mondo di delusi dall'economia e dalla politica, di incerti sul futuro e di scettici sul presente. La chiave sta nel sottotitolo della biografia firmata da Sarah Bakewell e appena uscita per Fazi nella collana «Campo dei Fiori» diretta dal filosodo transfuga da Mondadori Vito Mancuso: «L'arte di vivere». L'autrice seziona sentenze e consigli del francese tirandone fuori venti risposte a venti domande su come vivere. Il bello è che le situazioni immaginate sono un reality impersonato dai nostri campioni politici. Ci leggi in filigrana i trinariciuti di sinistra; i sempriterni che escono dal sacco di nylon pieno di natfalina; i farfalloni e narcisi che sperperano la credibilità in un party; le edere attaccate al potere; gli incapaci di fare analisi realistiche. Prendiamo il padre di tutti i pensieri di Montaigne. Socrate confessava: «L'unica cosa che so è di non sapere» e faceva dello scetticismo la regola di vita pubblica e privata. Montaigne si impregna dell'antenato greco e insieme con lui di Pirrone e del suo epoché, «sospendo il giudizio». Che francesizzava in Je soutiens, «non mi muovo». Ora, provate a dirlo a Massimo D'Alema, con quella sua aria di «so tutto io». Provate a rigirarlo ad Asor Rosa, l'italianista che pare non si sia accorto che è caduto il Muro di Berlino. Sostenuti da certezze d'antan, come il busto con le stecche che tiene in piedi una zitella emaciata, mai accetterebbero di mettere in discussione l'ideologia. L'idea di Stato li ingessa, lo spiffero del liberalismo gli procura una polmonite fulminante. È vero, è poco realistico che un politico dica je soutiens. Ma la cautela ha vantaggi enormi proprio per chi si aggira nelle stanze del Palazzo. «Non devono preoccuparsi mai di essere in torto. Se vincono una disputa, è la dimostrazione che avevano ragione. Se la perdono, è la dimostrazione che facevano bene a dubitare delle loro idee». Ed eccoci ai campioni dell'eccesso, a chi non si regola, e sciupa così la propria immagine. Montaigne ammonirebbe Berlusconi con il suo «la moderazione vede bella se stessa». E all'eccesso di ambizione oppone che la «vera grandezza d'animo risiede nella mediocrità». Mica stava sulle nuvole, il Nostro. Era pragmatico, conosceva i trucchi per «fare una cosa giusta in una situazione complessa». Al senatùr Bossi, in questa vigilia amletica di Pontida e del «rompo o non rompo con il Cav?», consiglierebbe di imitare gli stoici: «Immaginate che questo istante - sì, proprio ora - sia l'ultimo della vostra vita. Avete dei rimorsi? Ci sono cose che avreste voluto fare diversamente? Riflettete e capirete ciò che conta davvero». Un altro campione evoca Montaigne. Prodi, che la sinistra riesuma per la spallata finale al Pdl. Come Socrate Montaigne credeva nel tempo circolare, nell'eterno ritorno. E però consigliava di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima. Che grattacapo, per Romano.