La rivoluzione chiamata Céline
diMARIO BERNARDI GUARDI Nel marzo del 1932 Louis-Ferdinand Destouches, medico trentottenne al dispensario parigino di Clichy, presenta il manoscritto del suo romanzo «Voyage au bout de la nuit» a Gallimard e a Denoël. Ed è con quest'ultimo editore che firma il contratto nel giugno successivo. L'opera, che è firmata con lo pseudonimo di Céline, in ricordo dell'amatissima nonna materna e racconta le ribollenti esperienze di vita (guerra e dopoguerra) di Ferdinand Bardamu, alter ego dell'Autore, esce in ottobre. Anzi, «esplode». Un fragoroso successo di pubblico e di critica. Céline è la nuova «stella» della letteratura francese. Racconta la vita e la realtà con un impeto, un colore e una violenza straordinari («Non si sente forse il lui la predicazione di un Cataro, di un eretico estremista del Medioevo?», si chiede Jean-Paul Sartre). Va all'assalto della lingua, la rovescia come un guanto, la trasforma: «è il francese di Rabelais che resuscita», scrive Ezra Pound. E Leone Trotzski - una delle figure di spicco della Rivoluzione bolscevica, poi in rotta con Stalin ed esule a Città del Messico, dove sarà assassinato da un agente del dittatore nel 1937 - nota: «Céline discende dalla realtà francese e dal romanzo francese. Non deve vergognarsi dei suoi antenati. Il genio francese ha trovato nel romanzo la sua espressione insuperata. Da Rabelais, medico come lui, si è andata ramificando nel corso di quattro secoli una genealogia illustre di maestri della prosa epica: dalla risata fragorosa e aperta fino allo sconforto e alla disperazione, dall'alba luminosa alle tenebre della notte». Insomma, è la gloria. Con consacrazioni bipartisan perché il romanzo (tr. it. «Viaggio al termine della notte», Corbaccio) piace sia a destra che a sinistra. Già, ma da quale parte sta Céline? Si dice, genericamente, che è un anarchico: una definizione che a lui non dispiace. Il nodo, comunque, non viene risolto neanche quando appare, nel 1936, il nuovo romanzo «Mort à crédit» («Morte a credito», Garzanti). Ma in estate Céline compie un viaggio in Russia: la «realtà sovietica», esaltata come un «paradiso» dagli intellettuali di sinistra, gli si mostra, in presa diretta, per quello che è davvero. E cioè un inferno di miseria, squallore, oppressione. Lo scrive con parole di fuoco in un «pamphlet» fieramente anticomunista «Mea culpa» (Guanda), denunciando in particolar modo la mistificazione «ugualitaria»: «Perché il bell'ingegnere guadagna 7000 rubli e la donna delle pulizie 50? Magia, magia!». È da questo momento che per l'«intellighentsia» rossa e per i «radicalchic» Céline diventa prima un traditore e poi un vero e proprio «dannato». E a cinquant'anni dalla morte (1 luglio 1961) non dobbiamo dimenticare quand'è che scatta l'interdetto. Vero è che poi Louis-Ferdinand ci mise di tutto e di più per scandalizzare. E non solo i «compagni» che non volevano sentirsi sbattere sul muso con irriverente ferocia che il «dio» marxista aveva «fallito», ma tutti i ben pensanti e i moderati, qualunque fosse lo schieramento di appartenenza. Lo fece con i cosiddetti «pamphlet della vergogna» - «Bagatelles pour un massacre» (1937), «L'école des cadavres» (1938), «Les beaux draps» (1941) - dove si scatena in un virulento e allucinato razzismo, che non risparmia nulla e nessuno perché, se è vero che Céline parte lancia in resta soprattutto contro gli ebrei che, inventori tanto del capitalismo quanto del marxismo, cercano di assoggettare il «rincoglionito» Occidente, il suo odio divampante «brucia» tutti: meticci, negri, negroidi, ibridi, americani, asiatici, borghesi di destra e di sinistra, preti, massoni ecc. complici nella grande castrazione di un'Europa abbrutita dalla decadenza, anzi «marcia». È uscito di senno il libertario Céline? È diventato un pazzo furioso lo scrittore adorato da Sartre e da Trotzski, il quale, nella Francia occupata dai Tedeschi diventa, un collaborazionista (sia pure a modo suo e conservando intatta la sua «vis» polemica rivolta al mondo intero, tanto che i nazisti ne diffidano ed Ernst Jünger, scrittore, ufficiale e gentiluomo, bolla con sprezzo il suo esibito e forsennato antisemitismo)? Merita l'indignazione generale e il cordone sanitario che gli sarà steso intorno nel dopoguerra? Ed è per caso «un altro» Céline, magari un «pentito», quello che nel 1957, torna agli onori del pubblico e della critica con «D'un château l'autre» («Il castello dei rifugiati», Vallecchi, 1973) seguito da «Nord» (1960, tr. it. Einaudi, 1975) e dal postumo «Rigodon» (1969, tr. it. Bompiani, 1970)? No, Céline è lo stesso scrittore «apocalittico». Nessun pentimento, figuriamoci, per questo alfiere delle stravaganze e dei paradossi, per il quale anche Hitler era un «ebreo». E allora prendiamolo per quello che è, grandiosamente rivoluzionario e follemente delirante, con tutto il carico delle sue responsabilità. Non ci sono «tanti» Céline, tra cui scegliere quello che ci piace, mandando gli altri al rogo. Non c'è il Céline del «Voyage», quello dei «pamphlets», quello di «Rigodon». Ce n'è uno solo. E fare i conti con lui significa farli anche col Novecento, un secolo per nulla «breve», che ancora ci segue, con tutti i suoi fantasmi.