Rileggere Hemingway a 50 anni dalla morte

Cinque anni fa ci fu un piccolo (ma mica tanto…) «scandalo Hemingway». Vennero cioè pubblicate delle lettere, scritte verso la fine degli anni Quaranta, in cui lo scrittore, che in guerra era stato reporter, aveva lavorato per i servizi segreti e, dopo lo sbarco in Normandia, si era unito alla IV Divisione di Fanteria Americana, si vantava di aver ammazzato «con gusto» un centinaio e passa di prigionieri di guerra tedeschi disarmati. Tra cui un giovanissimo soldato che cercava di fuggire in bicicletta. Ernest gli aveva sparato alle spalle. In molti pensarono a una delle tante sbruffonate di Hem: «Ernest lo spietato» era l'ultima sua balla. Qualcun altro, però, fece osservare: no, può darsi che abbia detto la verità. Perché nella vita Hem non volle farsi mancar nulla e tutti gli eccessi gli furono cari: tirava di boxe e picchiava sodo, beveva come una spugna, era un donnaiolo impenitente, amava le armi, cacciava gli orsi nelle foreste del Michigan, gli elefanti in Africa, i marlin nel Mar dei Carabi, la violenza e il sangue della corrida lo affascinavano, amava le rivoluzioni, esaltava gli uomini che non esitavano a dare la morte e a sceglierla. Dunque, anche la crudeltà e l'efferatezza di chi ammazza a sangue freddo potevano far parte di un personaggio che tutto voleva sperimentare. Che dire? Hemingway è morto da quasi cinquant'anni (2 luglio 1961) e si è portato dietro segreti, spacconate e mezze verità. Una cosa è certa: la mattina del 2 luglio 1961 si sparò alla tempia con uno dei suoi fucili perché non ce la faceva più a vivere. Non poteva accettare una mezza esistenza, perché era abituato ad andare «al massimo», ad esprimersi nella più piena e feroce espansione vitale, ad esaltarsi e ad esaltare chi gli stava intorno in una chiassosa, contagiosa esuberanza. Ora, si sentiva vecchio (ma aveva solo sessantadue anni), stanco, malato (era convinto di avere il cancro), aveva più volte dato segno di squilibrio mentale, era stato sottoposto a diversi elettroshock, la depressione in cui era precipitato assomigliava a un buio senza fondo. Un'ultima sfida, la sua, e di quelle in cui il vincitore è anche il vinto. Aveva incominciato presto, Ernest, a fare a pugni con la vita. E cioè da quando aveva detto due «no», al babbo e alla mamma. Non si sarebbe iscritto all'Università, non si sarebbe dedicato alla nobile arte del violoncello. Gli piaceva scrivere, lo attirava il mestiere del giornalista, e così cominciò a collaborare al «Kansas City Star». Poi, eccolo in guerra. Vorrebbe combattere da volontario in Europa con il Corpo di Spedizione Americana come stavano facendo gli studenti universitari Francis Scott Fitzgerald, William Faulkner e John Dos Passos, ma non ci vede bene, e così lo arruolano come autista di ambulanza e lo spediscono sul fronte italiano. Dove, a Fossalta del Piave, in una notte di fuoco, tra colpi di mortaio, sventagliate di mitra e schegge assassine, viene ferito gravemente. Portato all'ospedale della Croce Rossa Americana a Milano, ci resta tre mesi e conosce la bella infermiera di origine tedesca Agnes von Kurowsky. Amore divampante. Ma quando Hem ritornerà nella sua città natale, Oak Park, accolto come un eroe, ecco la doccia fredda di una lettera di Agnes: presto si sposerà con un giovane aristocratico italiano. Ad Ernest precipita addosso il mondo. E chi gli dà la forza di sopravvivere? La letteratura. Pubblica le primissime prose, proposte l'anno scorso da una piccola casa editrice di Pistoia («La Corrente», a cura di Francesco Cappellini, Via del Vento Edizioni). Ma c'è già abbastanza materiale biografico per qualcosa di più: il romanzo «Addio alle armi», che uscirà nel 1929. Sono tanti quelli che lo hanno letto. Ancora di più, però, quelli che hanno visto il film (1957, interpreti Rock Hudson e Jeniffer Jones). Del resto, non ci sono romanzi altrettanto «cinematografici» come quelli di Hemingway. Meglio ancora: tratto caratteristico della scrittura di Hemingway - rapida, incisiva, limpida e immediata: questa la lezione che il ragazzo del Michigan aveva imparato come cronista - è quello di assomigliare a una sceneggiatura, bell' e pronta per esser tradotta in film. Dicendo questo, non intendiamo per nulla sottovalutare Hemingway premio Nobel per la letteratura (1954), ma metterlo a fuoco appieno come un uomo del nostro tempo, uno scrittore che vuole e sa comunicare a un vasto pubblico le proprie esperienze. Perché quasi tutti i racconti e i romanzi di Hem sono frutto di esperienze o vissute o comunque rielaborate. E il linguaggio cinematografico si incarica di rendere il documento ancora più fruibile, perché qui il «medium» è uno strumento che parla alle masse ancor più di quanto non possa fare la letteratura. Hemingway e il cinema. Hemingway è anche il cinema. E cioè la «storia» e la «vita» del Novecento che diventano «naturalmente» cinema. Pensiamo al ritratto della «generazione perduta» - i giovani intellettuali yankee che «sbarcano» a Parigi negli anni Venti, alla cerca di se stessi e del senso della vita: Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos, Pound, Gertrude Stein, Henry Miller - disegnato da Hem in «Fiesta» (1926) e alla «versione» cinematografica che ne fece Henry King nel 1957, affidandosi a «mostri sacri» come Tyrone Power, Ava Gardner, Errol Flynn, Juliette Greco, tutti perfettamente calati nell'atmosfera hemingwayana. E davvero non è possibile dimenticare amore e morte nella guerra civile spagnola raccontati in «Per chi suona la campana» (il romanzo del 1940 e il film del '43 con Gary Cooper e Ingrid Bergman) e l'esemplare lotta tra l'uomo e la bestia (un pescecane) de «Il vecchio e il mare» (il racconto è del 1952, il film, con l'icona Spencer Tracy, del 1958). È bello, a cinquant'anni dalla morte, rileggere Hemingway. E «rivederlo».