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Uno sguardo dai ponti. Di Roma

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Ponte Matteotti, sul Tevere

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È il momento più bello per affacciarsi. I rami dei platani sono cattedrali verdi, fino all'azzurro già lattiginoso di giugno. I rami pendono verso l'acqua, che rimanda il colore e trema come le foglie. I turisti fanno macchia - calzoncini gialli, t-shirt blu, top rossi - sulla pietra dei monumenti, sul bianco del travertino. E i barconi sono stati appena ridipinti, azzurre le chiatte, lucido il legno come la pelata del piacione d'antan sdraiato e incremato sotto al sole. È il momento più bello per attraversare i ponti di Roma. Anche i difetti fanno atmosfera. Sotto, i ciuffi d'erba lacustre. Sopra, le macchine in fila. La pietra dei muraglioni andrebbe ripulita, certi accampamenti vietati. Indizi di una capitale splendida e affannata. I ponti parlano degli antichi, dei papi, dei Savoia, della Repubblica. Alla loro ombra i Tarzan, i poveri ma belli si tuffavano a mostrare i muscoli nella bracciata. Le comari li traversavano per arrivare a Campo de' Fiori, al mercato del pesce del Ghetto, in faccia all'Isola Tiberina. Qualche giorno fa la capitale ha inaugurato un altro ponte, detto della Musica, perché dalle pendici di Monte Mario porta al Maxxi e all'Auditorium di Renzo Piano. La costruzione che evoca, nei materiali e nella forma, lo scorcio di una nave è il ponte numero 35 della caput mundi. Che decise di farli, i ponti, quando l'insediamento sulla riva sinistra del Tevere s'era consolidato. Insomma, gli antichi romani si sentivano tanto potenti da non temere attacchi nemici. E tuttavia erano di legno i primi passaggi da un argine all'altro. Per poter essere subito distrutti, quando l'urbs se la vedesse brutta. Mitico ponte Sublicio, il più antico, del quale ora si può solo favoleggiare. Era a valle dell'Isola Tiberina, sotto quell'Aventino che aveva tradito Remo. Tito Livio riferisce che a volerlo, nel VI secolo avanti Cristo, fu re Anco Marzio. Orazio Coclite ne fu un eroe. E che fosse di legno lo dice il nome: Sublicio viene da sublica, tavola di legno in lingua volsca. Nel 1914 lo ricostruì Marcello Piacentini: tre arcate, ciascuna di 105 metri, a collegare Testaccio con Porta Portese. Questo punto del Tevere riunisce i passaggi più suggestivi. Ecco Ponte Rotto, che si chiamava Emilio. Ridotto a rudere, è un miscuglio di epoche: prima versione nel terzo secolo avanti Cristo, ricostruito nel 142 a.C. I piloni sono originali, l'arcata del Rinascimento. La sua funzione la fa adesso Ponte Palatino, di fine Ottocento. Lo chiamiamo Ponte all'inglese, perché si imbocca nella parte sinistra. Fabricio e Cestio sono i ponti dell'Isola Tiberina. Quello di Tor Boacciana o delle Scafa, vicino a Ostia Antica, oltrepassa il Tevere nel punto più vicino alla foce. Come si vede, i romani se ne infischiano dei nomi ufficiali dei loro ponti. Chiamano «di ferro» - il materiale delle arcate - quello dell'Industria, a San Paolo. E hanno rinominato Matteotti quello delle Milizie e poi Littorio. Unisce Prati al Flaminio, digrada piacevolmente verso la riva con una scalinata ad arco, lo scalo de Pinedo. Fu ammazzato qui, dai fascisti, Giacomo Matteotti, dopo aver pronunciato alla Camera il discorso contro i brogli elettorali. C'era una volta pure il ponte del Soldino. All'altezza di San Giovanni dei Fiorentini, lo costruì nell'800 in legno e ferro una società francese che faceva pagare il pedaggio. Nel 1941 fu demolito e rimpiazzato da Ponte Principe Amedeo. Semplicemente «Vittorio» invece che «Vittorio Emanuele II», il ponte comiciato dai Savoia nel 1886 e finito nel 1911. Storia e poesia s'intrecciano a Ponte Milvio, apostrofato come «Mollo». Se ne comincia a parlare nel 207 prima di Cristo, si riedifica in muratura cento anni dopo. Nell'Ottocento si aggiunge la torretta del Valadier. Adesso fa tendenza (troppa) con i lucchetti dell'amore. Gioacchino Belli lo sceglie come sfondo di due sonetti, intitolati Er duca e 'r dragone. Ride, il poeta, dell'avventura del duca di Poli, Marino Torlonia. È il 1835, passa in carrozza su Ponte Milvio, apostrofa con un ubbriaco un dragone pontificio. Questo gli punta addosso la pistola. Allora il duchino «...S'arza, se butta ggiù ddar carrozzino,/ mette mano a una viggna, entra ar casino,/ ce se serra, eppoi disce: Me ne caco...».

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