di MARIO BERNARDI GUARDI Emilio Salgari, ovvero dell'equivoco.
Perchésono ancora in molti a chiamarlo Sàlgari, quando invece si chiamava Salgàri. Poi, con tutte quelle avventure che racconta, ce lo immaginiamo a giro per il globo, tuffato nei più misteriosi e insidiosi paesaggi esotici, magari immerso nei misteri della jungla nera e alle prese con animali feroci, o costretto a respingere gli assalti di sanguinarie tribù, dedite ai più terribili rituali. Oppure, ecco, ci pare di vederlo veleggiare su ampie, assolate distese marine, in compagnia di corsari dal cuore intrepido e con una bella serie di conti da regolare con chi ha cercato e cerca di infangare il loro onore. Ma Salgàri non ebbe una vita avventurosa. E viaggiò davvero poco, visto che, studente del Regio Istituto Tecnico e Nautico Paolo Sarpi di Venezia, non arrivò ad essere capitano e si limitò a navigare per tre mesi lungo le coste dell'Adriatico a bordo della nave «Italia Una». Avventure «vissute» zero, dunque, e un solo viaggio decisamente «domestico». In compenso, tante letture nelle biblioteche che insonne frequentò, dalla natìa Verona a Torino dove andò ad abitare dopo il matrimonio con l'attrice teatrale Ida Peruzzi: libri di geografia, carte, mappe, racconti di viaggi e resoconti di esplorazioni, e una fantasia fervida e fertile che «vedeva» e «si impadroniva» degli ambienti più sconosciuti, e li ricreava mettendoci dentro eroi all'altezza delle più ardue e intricate situazioni da sciogliere, appunto, a colpi di coraggio e intelligenza. Partorì avventure su avventure - quelle dei Pirati della Malesia, dei Corsari delle Antille, dei Corsari delle Bermuda, quelle ambientate in India o nel Far West o addirittura in paesaggi fantascientifici - il nostro Emilio, senza alzarsi dalla sedia a cui era condannato, legato quasi, da contratti editoriali-capestro: perché Speirani e Donath e Bemporad volevano tre libri all'anno, e lui lavorava come un matto, fumando cento sigarette al giorno e bevendo marsala per tenersi su e onorare i suoi impegni con gente che di senso dell'onore ne aveva poco. Non era facile far fronte a quel lavoro massacrante con una moglie mezza matta (e infatti sarà ricoverata in manicomio) e una famiglia numerosa cui non far mancare il sostegno: ma ad arricchirsi erano i vampireschi editori che lo spremevano goccia a goccia. E proprio a loro Salgàri, facendo harakiri con un rasoio giusto cent'anni fa, indirizzò il suo violento «j'accuse«: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria o anche più, chiedo solo che per un compenso dei guadagni che vi ho dati, pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». C'è chi dice che Salgàri la morte se la portasse addosso come un «vizio assurdo», al pari di quel che capiterà a un altro torinese di adozione, Cesare Pavese, suicida nel 1950. Chissà. Certo è che la nera ala della tragedia gli batteva accanto, non risparmiando né ascendenti né discendenti: il padre si era ammazzato, e, della numerosa prole, Fatima morirà vittima della tisi, Nadir in un incidente in moto, Romero ed Omar entrambi suicidi. Il «tragico» come condizione esistenziale, dunque. Spiriti nobili, ma deboli, e decisamente «umiliati e offesi», fino alla morte, scelta come occasione di riscatto. Però non è questa la lezione che ci viene dalle decine e decine di romanzi salgariani che, nell'era di Harry Potter, continuano ad essere riproposti, come se, nonostante i cambiamenti epocali, Sandokan, Yanez e il Corsaro Nero dimostrassero di avere una marcia in più. E non ci sono solo i romanzi, ma anche i film, con relative icone: basti pensare al più celebre tra i Sandokan massmediatici, e cioè a Kabir Bedi, che, anche oggi, fa la sua bella figura, dopo aver spopolato, trentacinque anni fa, sul piccolo e sul grande schermo (con la direzione di Sergio Sollima), conquistando il cuore della tenera Lady Marianna - Carol André e tantissimi altri cuori di studentesse e casalinghe adoranti (non va dimenticato che la fortunata coppia Kabir-Carol fu riproposta anche nel «Corsaro Nero», diretto nel 1976 dallo stesso Sollima). Non basta: infatti, e non poteva essere diversamente, Salgàri viaggia anche su Internet, tra compatte schiere di aficionados di tutte le età. Beato il mondo che, a dispetto di Bertold Brecht, ha ancora bisogno di eroi e li cerca dappertutto, magari tornando a saccheggiare l'immaginario dei papà e addirittura dei nonni? Forse è proprio così. L'avventura, il sogno, il coraggio virile nonostante tutto, «tirano». E il mai sopito bisogno di valori cui attingere alimenta le «attese». Salgàri, in fondo, ci insegna ad andare all'assalto della realtà, a scommettere sulle nostre risorse - e sull'«ideale» - per trasformarla. Il Corsaro Nero e Sandokan non si accontentano dell'esistente: lo sfidano. Se ingiustizia, menzogna e mediocrità sembrano prosperare, loro, i Cavalieri dell'Ideale, non ci stanno. E continuano a piacere proprio per questo: non si arrendono, combattono. Anche, come nel caso di Yanez (seppe dargli volto e «spirito» adeguati il bravo Philippe Leroy), con le armi dell'ironia che, adeguatamente affilate, fanno a fette i cattivi come lame di spada. Salgàri non resse alla sfida della realtà? Bè, gettò in faccia la sua morte a chi, in qualche modo, l'aveva provocata. Affermazione per negazione, eroismo disperato con qualche nostalgia romantica, un po' «alla Iacopo Ortis». La dignità della sconfitta. Gli eroi salgariani, però, sono dei vittoriosi. Anche un po' guasconi, col gusto del «colore», della rissa e della beffa. Piacevano a Mino Maccari che, raccontandomi il «suo» fascismo, mi spiegò che a fornirgli abbondante alimento erano stati proprio i libri del Salgàri. Da lì aveva imparato che non bisogna piegarsi agli eventi, ma «cavalcare la tigre». Dopo quelle della Malesia, ci siamo fatte tutte quelle del Novecento, mi disse. Mai dimenticando di essere «corsari». Con tanto di bandiere nere, di teschi e di ossa. E di navi da abbordare. E anche da antifascisti, aggiunse, siamo stati pirati, sempre liberi, sempre contro i sistemi di potere. Ma sembra che Salgàri abbia acceso anche le fantasie dei «rossi». Si dice che il «barbudo» Ernesto Che Guevara avesse letto oltre sessanta dei suoi romanzi. Avevano contribuito ad eccitare i suoi bollenti spiriti rivoluzionari, ispirandogli il desiderio di lotta contro l'ingiustizia? Probabilmente. Probabilmente c'è un Salgàri «giovanilista» e «movimentista» ancora tutto da scoprire. Probabilmente dietro uomini ed eventi del Novecento più appassionatamente «militante», c'è anche Salgàri. E l'irruenza del Manifesto futurista e dell'impresa fiumana - dove non casualmente campeggiavano gli «uscocchi», i pirati adriatici dannunziani - si spiega anche con i sogni d'avventura alimentati da Salgàri. Davvero uno straordinario «viaggiatore».