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Addio signor Piccolo Schermo

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diLIDIA LOMBARDI Ripassare quello che è stato Biagio Agnes è catapultarsi in un miraggio. Direttore generale della Rai, si pensa subito. Ma quale direttore generale? Uno lontano anni luce da quelli venuti dopo, fino ad oggi. Uno che non ha mai preso il telefono per disquisire in diretta di quel che si deve o non si deve fare in tivvù. Che non ha mai dovuto litigare coram populo con Santoro, né chiudere un programma dopo la prima puntata per tracollo di share. La Rai di Biagio Agnes era oliata, autorevole, mai sboccata. Allegra e raffinata, fantasiosa e colta, equilibrata nelle news. Sarà per questo che l'addio ad Agnes unisce tutti, a destra, al centro e a sinistra. Col corollario che tutti sotto sotto gareggiano per tirare la giacca post mortem a «Biagione». Vedendovi alternativamente il difensore della tv di Stato contro l'assedio di quella privata. O l'uomo di fiuto, che capì quanto valevano i network passando alla fine a presiederne un o plasmando Viale Mazzini per fronteggiarli. Ma insomma, Agnes lottizzato, uomo di paglia di questo o quel partito politico, servo del potere nessuno ha mai osato dirlo. Piuttosto, garante del pluralismo. Certo, lavorò in una Rai che col bilancino distribuiva gli spazi ai Dc, Psi, Pci. Ma lui, ben targato nei suoi legami con i cattolici, con il conterraneo avellinese Ciriaco De Mita e con la Balena Bianca di sinistra, era inattaccabile perché appoggiava sempre la trasmissione giusta. Agnes guidò la Rai dal 1982 al 1989. E seppe adeguarla alla concorrenza che dieci anni prima sarebbe stata impensabile. Come? Inchieste, sceneggiati, tiggì all'ora di cena coi mezzobusti carismatici, varietà del sabato sera: insomma l'epopea della tv unica e autarchica insidiata dal chiacchiericcio delle private, dalle loro sperimentazioni, dalle risse funariane, dai talkshow, dagli helzapoppin? Mentre Mediaset camminava spavalda, Agnes capì che doveva combatterla sullo stesso piano. Non lasciare al Biscione l'intrattenimento e relegare Viale Mazzini nel sonnacchioso limbo informazione-formazione. «Biagione» lottò contro l'esodo dei divi. Baudo ricorda che se la prese con lui quando passò al nemico Berlusconi e poi si commosse quando tornò da mamma Rai mostrando il contratto faraonico al quale aveva rinunciato. Così a Bongiorno, a Corrado, a Costanzo, alla Carrà che migravano in Fininvest (nel frattempo Italia Uno e Retequattro avevano affiancato Canale 5) contrappose Celentano e Arbore, Beppe Grillo, Enzo Biagi, il trio Marchesini-Solenghi-Lopez. Nacquero programmi di culto come Quelli della notte, Telefono Giallo, Samarcanda. E se Agnes aveva inventato negli anni '60 le notizie all'ora di pranzo, da dg varò la Rai3 di Curzi e Guglielmi. Poi, il grande trasloco che «decentrava» la Rai a Saxa Rubra, un impegno finanziario titanico, anche qui per fronteggiare tecnologicamente i colossi privati. Agnes non lasciò ai «nemici» nessun settore. Con Cecchi Gori siglò un accordo sensazionale che gli forniva film memorabili. Le fiction erano fenomeni come «La piovra». Lasciò quando al potere andò alla Dc di Forlani. In questi ultimi anni era tornato al giornalismo, ma ex cathedra, dirigendo la scuola nell'Università di Salerno e inventando il premio di Amalfi. Il suo libro-intervista a Mauro Mazza si intitola «Tv. Moglie, amante, compagna». Vi auspica una rapporto meno viscerale tra chi fa e chi guarda la tv. La forza del professionismo che sosteneva il tubo catodico.

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