Le scomode verità di McLuhan
diGINO AGNESE Cento anni fa a Edmonton, capoluogo della provincia di Alberta, nel Canada delle praterie, nasceva Marshall McLuhan, «il profeta dei media», colui che ha consegnato al Novecento alcuni assunti tra i più discussi, alcune frasi di largo corso che tuttora si affacciano in una varietà di contesti. Quante volte sentiamo dire che il mondo è «il villaggio globale» o che l'universo dei libri e dei giornali è «la galassia Gutenberg»? A chi non è successo di sentire qualcuno affermare con sicurezza la sconcertante, difficile verità che «il medium è il messaggio». Celebre, incurante delle contestazioni che gli mossero alcuni studiosi della comunicazione arroccati - si diceva - nella «cultura sequenziale», McLuhan morì nell'ultimo giorno del 1980, così che la sua scomparsa fu una delle notizie che «aprirono» il nuovo decennio. Martedì a Roma, nella sede di via Salaria, là dove si coltivano gli studi sulla comunicazione, l'università «La Sapienza» ospita il convegno «McLuhan, tracce di futuro»: ed è il terzo, dopo quelli promossi a Milano dall'università IULM e a Bologna dall'ateneo felsineo. A conferma, non c'è dubbio, della piena attualità d'un pensiero che scosse e che si espresse in modo singolare, preferendo il frammento e affidando spesso il suo dire a «sonde», «razzi» e a immagini antifrastiche. Anzi, col passare del tempo, alcune ostilità a McLuhan sono cadute. Per esempio, ha recentemente corretto il tiro la prestigiosa rivista dei gesuiti «Civiltà Cattolica» che, negli anni Ottanta, per la penna del padre Enrico Baragli, lo ignorò o lo tenne sotto tiro. La rivista sostiene adesso, con gli scritti del padre Antonio Spadaro, che non è relativismo ammettere ciò che sosteneva lo studioso canadese: e cioè che i media agiscono profondamente nella psiche, influendo non soltanto sui comportamenti bensì anche sullo sguardo che diamo al mondo e sulle più essenziali risposte che ci diamo. Dottissimo e roccioso, perito del Concilio, ghost writer dell'«Inter Mirifica», il padre Baragli per quattordici anni scrisse nella mia rivista «Mass Media»: e lì più apertamente attaccò McLuhan, e a nulla valsero le mie obiezioni, a cui aggiungevo la considerazione che McLuhan, nato protestante e divenuto cattolico, mostrava lo zelo dei convertiti. Ma perché resta importante Marshall McLuhan? E in sostanza, che cosa ha detto nei suoi tre principali libri che sono «La sposa meccanica» (1951), «Comprendendo i media» (1964: poi in italiano nel '67 col titolo «Gli strumenti del comunicare») e «La galassia Gutenberg» (1962, tradotto in Italia nel 1976)? Vediamo, in breve. McLuhan anzitutto ha il merito storico di «aver posto il problema». Insomma, ha il merito di aver diffuso la necessità d'una riflessione critica sui mezzi della comunicazione: quelli a stampa, quelli operanti via etere, ma poi anche la fotografia, il cinema e altri ancora. Egli non parte da un'osservazione originale. E infatti, quando pone alla base di tutto il fatto che i media (ma anche altri numerosi mezzi, come quelli di trasporto, per esempio) modificano la sensibilità di chi li adopera, riprende altri autori, anche di anni molto precedenti ai suoi. Marinetti, il poeta fondatore del Futurismo, a queste modificazioni accennò nel 1913 (si veda il suo manifesto «Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili»). E ancora ritornò sull'argomento nel 1933 nel libro «Il fascino dell'Egitto». Egli colse - per primo o tra i primi - un dato che poi McLuhan, nella seconda metà del secolo, rese più noto e smagliante: che i mezzi della comunicazione sono estensione del nostro sistema nervoso centrale, sono in una parola delle «protesi». Ed è evidente, allora, che il sistema nervoso, abituandosi a queste «protesi» (si pensi alla penna, al volante dell'auto o alla ruota stessa, moltiplicatrice dei passi) ad esse si acconcia, in qualche misura potenziando o deprimendo questa o quella delle sue facoltà. Abbiamo dei mezzi che mobilitano un certo impegno sensoriale e altri che hanno pretese differenti. La radio allerta l'udito, come il telefono. La lettura mobilita la vista e la costringe a un'ardua «ginnastica» che non lascerà indifferenti, o senza conseguenza alcuna, gli apparati neuronali più coinvolti nella traduzione dei simboli alfabetici e, per quel che riguarda noi occidentali, nell'andamento dello sguardo da sinistra verso destra con fulminio à rebours. Ma la nostra «ginnastica» di utenti dell'alfabeto fonetico è ben diversa da quella che, per tutta la vita, praticano quanti si servono degli ideogrammi. Se noi, a forza di leggere e di scrivere, incliniamo alla sequenzialità, loro avranno inclinazioni differenti, forse comprese nella dimensione estetica. E così via - altro esempio - nel caso ancora diverso del leggere e dello scrivere degli arabi. McLuhan, poi, riuscì a mettere a buon diritto il suo copyright a un'espressione fortunata: «Il mezzo è il messaggio». Qui incontrò un inesausto fuoco di sbarramento, ma direi che vinse poi la partita. Cosa vuol dire che «il mezzo è il messaggio»? Vuol dire che i contenuti di un qualsivoglia medium (un giornale, una televisione, un treno) certo che contano; ma conta assai di più il medium stesso. Fu la ferrovia, intesa come strada ferrata e via vai di convogli, a marcare il decollo del West e non tanto la qualità dei viaggiatori. Certo qui non si vuole negare, mutatis mutandis, che vi siano delle differenze tra una programmazione televisiva e un'altra, ma è il medium televisivo che forma e sforma, esaltando ciò che si vede ed abbassando la rilevanza di ciò che si ascolta. Quando Hegel ripeteva che il giornale era la sua «preghiera del mattino», non si riferiva tanto alle notizie, buone o cattive che fossero, ma parlava del medium, si riferiva al rapporto mattutino con quelle pagine, con quella testata, con quei caratteri. Del resto, McLuhan ha anche l'altro merito di aver accreditato, anche in ambiti assai vasti, una verità rimasta sepolta per secoli; una verità che successivamente, negli anni Ottanta, fu sistematicamente trattata da Margaret Eisenstein e che si può riassumere così: la tecnologia che chiamiamo stampa, protagonista di una «rivoluzione inavvertita», è decisiva in quanto tale più ancora che in quanto ai suoi contenuti. Per dire: fu l'invenzione dei caratteri mobili fatta da Gutenberg a consentire la diffusione della Bibbia; e questa diffusione fu il presupposto della riforma assai più della predicazione di Lutero. Ricorderò infine con un po' di emozione un'altra delle frasi di McLuhan, «staccare la spina», ovvero interrompere la comunicazione. Quella frase prese il volo da una pagina de «Il Tempo»; e fu quando, in un'intervista concessa a un valoroso e compianto redattore di questo giornale, Gino Fantauzzi, il «profeta dei media» disse che per battere il terrorismo bisognava non enfatizzare le gesta dei brigatisti rossi, e se possibile ignorarle. L'intervista, pubblicata il 19 febbraio 1978, fu ripresa con grande evidenza in tutto il mondo. Ebbi una parte in quello scoop e l'ottimo Fantauzzi ne scrisse dettagliatamente in «Mass Media», marzo 1987. Ma nella politica italiana non c'era una travolgente intenzione di staccare quella spina. Che peraltro, in una società elettrificata, nessuno avrebbe potuto tenere staccata per un periodo apprezzabile.