Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

di SIMONA CAPORILLI Lo scambio tra la luce e l'ombra nella pittura di Caravaggio è un «gioco».

default_image

  • a
  • a
  • a

L'influenzache Michelangelo Merisi ha avuto sul suo lavoro, Storaro l'ha raccontata nel dvd «Dentro Caravaggio» (eDEd'A) presentato ieri al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Un dvd con un altro prezioso intervento: quello del professor Maurizio Calvesi. Storaro lei, come Caravaggio, si trova a dover decidere tra luce naturale e luce artificiale, cosa sceglie? «Mah, io credo che non si può scegliere tra una parte sola della nostra vita. È un po' come il giorno e la notte, l'inconscio e il cosciente. Rappresentando figurativamente c'è bisogno di tutte e due. Come il rapporto tra l'uomo e la donna. Dopo Apocalypse mi sono fermato un anno a studiare i simboli, i rapporti con la fisiologia della luce». Esempi di conflitti fra concetti diversi? «Nel "Conformista" c'è il concetto di libertà degli intellettuali di Parigi e il conformismo fascista anni '30. Credo che "Novecento" prima ma anche Coppola dopo, abbiano portato la massima sublimazione delle mie capacità espressive, nel confronto di due civiltà». Preferisce il primo o l'ultimo Caravaggio quello, ad esempio, della Decollazione di San Giovanni? «Non si può scegliere, volendo analizzare la vita di una persona. Come la domanda sul film che preferisco...». La tentazione di fargliela è grande. «Sì, però un percorso è come un puzzle, che rappresenta il nostro ritratto. Se togliessimo quel pezzetto mancherebbe anche il quadro d'insieme. Tutto è un insieme di esperienze, di conoscenze: cerchiamo con la nostra creatività di comprendere noi stessi. Come lei quando scrive, come io quando lavoro». Apocalypse Now è ispirato soprattutto alla Vocazione di San Matteo o l'hanno influenzata anche altri dipinti? «Onestamente, non ci pensavo coscientemente a Caravaggio, a quell'epoca. Quando Coppola mi parlava del desiderio di mostrare una giungla che fosse un po' surreale, io gli mostrai gli schizzi di Burne Hogarth, disegnatore di Tarzan e ispirato dalla scultura michelangiolesca. Uno mi avrebbe preso per pazzo ma Coppola mi abbracciò e mi disse "Vittorio, hai capito tutto". Poi magicamente la sequenza di Marlon Brando che mostrava se stesso come un puzzle dall'oscurità, uscendo dal cuore di tenebra per mostrare il volto vero, quello tenuto nascosto dall'inconscio... Mi è venuto tutto d'istinto, però sicuramente l'immagine arriva da Caravaggio». La resurrezione di San Lazzaro è il sintomo di una nuova vita di Caravaggio. Lei ha mai fatto un film con lo stesso spirito? «Il film "Caravaggio" ha portato in me questa coscienza. Normalmente uno si legge il copione, parla con il regista ma mai, così limpidamente, ho analizzato una vita come quella di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Credo di sì, di aver avuto quella sensazione facendo il film "Caravaggio", diretto da Longoni e prodotto da Ida Di Benedetto». Qual è l'Oscar a cui tiene di più? «Certamente "L'ultimo Imperatore" con Bernardo Bertolucci. È stata la più grande emozione, arrivata come un fulmine a ciel sereno. Ero molto giovane e c'erano personaggi come Giuseppe Rotunno che concorrevano. Io l'Oscar lo vedevo come un premio alla carriera. E "Reds" è stato un altro momento intenso». Perché? «Perché premiare un film su un comunista americano mi sembrava assurdo. Ho rivisto il momento della premiazione: avvenne sulle note dell'Internazionale, a Hollywood!!». E il suo momento di maturazione? «Con l'aiuto dei grandi registi italiani. Francis Coppola me lo ha detto. Mi chiamò, aveva visto "Il conformista", se lo proiettava in 16 mm quando era depresso. Mi chiese di mettere a disposizione del cinema americano la mia cultura italiana. Non ho mai avuto la sensazione di "esportarmi", ho avuto la sensazione, uscendo, di esportare la cultura italiana nel cinema americano. Ma ho anche importato da loro... E c'è stato ancora una volta uno scambio di conoscenza. Il ritorno in Italia con "L'ultimo Imperatore" è stato un reimpostare le conoscenze internazionali nel cinema italiano». E alla nomination? «Alla nomination mi sono detto: è assurdo che qui (con "L'ultimo Imperatore", ndr) non ci sia un riconoscimento. Così sono rimasto un mese prima a Los Angeles e ho fatto tanti seminari in California, nel Sud... Feci molti incontri con tanti colleghi, spiegando loro la concezione figurativa del film. Per evitare che accadesse quello che è accaduto a miei carissimi amici, che hanno presentato film straordinari». C'è un regista italiano che oggi meriterebbe l'Oscar? «Molte volte dipende dal progetto. Indubbiamente Tornatore. Sorrentino, quando avrà il soggetto o la sceneggiatura giusta, che possa essere apprezzata. Ma molte volte è la casualità di un momento, dipende dal periodo. Esempio? "Dick Tracy", quell'anno non fu celebrato il Columbus Day, fecero una festa per i nativi americani, uscì "Balla coi lupi" e premiarono questo film. "Reds"? Certo, premiarono me e Warren Beatty ma non si sono sentiti di premiarlo come miglior film. Un film sul comunismo in America...».

Dai blog