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Flaiano: tutti lo citano, pochi lo conoscono

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Ennio Flaiano

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Era un grande italiano. Era il più grande critico degli italiani. Era una grande anima. Ma noi abbiamo prima fatto finta di non capirlo. Poi lo abbiamo tradito. E continuiano a farlo ogni giorno, traducendo la sua ironia in cinismo, i suoi aforismi corrosivi in frivoli divertissement, le sue osservazioni devastanti in giudizi acidi. E, soprattutto, citandolo a sproposito. È l'effetto della «flaianite», una malattia collettiva nutrita dall'ignoranza e forse da un'intima, inconfessata invidia che impedisce di cogliere la sublimità dell'essere di Ennio Flaiano, nato nel 1910 a Pescara ma fervente romano adottivo, e scomparso prematuramente nel 1972. Neanche il recente Salone del libro di Torino è riuscito a riconoscere il valore di questo scrittore schivo, citatissimo e nello stesso tempo poco conosciuto. Non è stato, infatti, inserito nei quindici testi «fondativi» della Penisola. Abbiamo pensato a un refuso, visto che c'era un cognome molto simile ma che non avremmo mai inserito nell'empireo, quello di Roberto Saviano. Ma non era così. Anche nel più lungo elenco dei 150 «Grandi Libri che, anno dopo anno, dal 1861 al 2011 hanno scandito la storia d'Italia e contribuito a plasmare il nostro costume, il gusto, il nostro pensiero» figura solo il suo «Diario Notturno» del 1956, ma a «pari merito» con Giorgio Bassani (Cinque storie ferraresi), Sandro Penna (Una strana gioia di vivere), ed Edoardo Sanguineti (Laborintus). Sarà perchè una delle definizioni che accompagnava la lista centocinquantenaria era «I libri che ci hanno resi un po' più italiani». E Flaiano era, a torto considerato, un «anti-italiano», un uomo di sinistra dai destri e viceversa. L'autore di «Tempo di uccidere», lo sceneggiatore della «Dolce vita», di «Otto e mezzo», de «I vitelloni» (un termine da lui coniato), il geniale collaboratore di Fellini, Monicelli, Antonioni, Rossellini e Zampa, il surreale estensore di «Un marziano a Roma», comunque, «non era un intellettuale che trascorresse il suo tempo a inventare giochi di parole» e a esibirsi «con paradossi e motti di spirito», come rammenta l'amico-allievo Giovanni Russo nel suo «Oh, Flaiano!», edito da Avagliano. In lui «l'ironia era nutrita da un profondo senso morale e non concedeva mai nulla alla volgarità e alla superficialità». «Odiava la retorica dell'impegno» e diffidava degli intellettuali impegnati. Era anticonformista, antinotabile, antifascista e anticomunista. «Non mi posso permettere di essere comunista», diceva, e confessava: «Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa». Non era un tifoso di calcio («non mi entusiasma, lo sopporterei se sul campo i giocatori fossero ventimila e il pubblico ventidue persone»). Derideva «gli straordinari difetti» dei suoi connazionali, sostenendo però che senza di essi «l'italiano oggi non esisterebbe o sarebbe un gran male». E chiosando: «Credo che il difetto maggiore degli italiani sia quello di parlare sempre dei loro difetti». Il paradosso è che l'artista abruzzese era nemico acerrimo di quanto suonava artificioso e fasullo. Però i suoi epigrammi vengono stravolti o a lui si attribuiscono «detti» mai pronunciati. Due esempi? La frase che molti quotano a suo nome, «l'insuccesso ti ha dato alla testa», invece era stata rivolta a lui da Mino Maccari dopo il flop teatrale di «Un marziano a Roma». E quella lanciata puntualmente dalle seggiole del bar Rosati a Vincenzo Cardarelli, che anche d'estate indossava il cappotto («il più grande poeta morente»), era dello scultore Marino Mazzacurati. D'altra parte Flaiano aveva intuito la barbara deriva culturale del turboconsumismo, un mondo di surfer che sfrecciano veloci sulle onde ma non vanno mai in profondità. E, come ricorda sempre Russo, i «suoi aforismi manifestano il disagio per la trasformazione di un Paese agricolo in una società consumistica avida e volgare». Il suo concetto di etica era ferreo e oggi sarebbe considerato anacronistico e forse anche un po' bacchettone. Lasciò il posto da critico cinematografico al Mondo di Pannunzio perché era diventato un celebre sceneggiatore e non sopportava questo pur minimo «conflitto d'interessi». Amava la Capitale ma si sentiva un contemporaneo di Giovenale e Marziale. Era la Roma del ponentino, delle serate alla fiaschetteria Beltramme in via della Croce e dei vagabondaggi tra i bar del Centro, prolungati anche quando i battenti dei locali venivano sbarrati e durante i quali nel suo gruppo amicale nascevano le definizioni più belle. Come quella sul fornicante Guttuso, «Il Picazzo delle contesse» o sul claudicante Moravia, «L'amaro Gambarotta». Già allora diceva: «Vivere a Roma è come perdere la vita», sintetizzando l'impossibilità di accettarla e, insieme, di abbandonarla. Oggi non lo direbbe più. E quando, nel '75, nella metropoli venne inaugurata una scuola a lui intitolata, Cesare Zavattini commentò: «Se potesse vedere sul frontone il suo nome, esclamerebbe: "Ci deve essere un errore di stampa!"». Flaiano ai suoi tempi venne emarginato, considerato come un «soggetto» stravagante, incontrollabile, una semplice fabbrica di battute acri quanto d'effetto. Non era vero. Non si limitava a questo. E il periodico febbrile ritorno della «flaianite» rappresenta un intollerabile tradimento postumo. Il modo migliore, l'unico, per onorarlo è conoscerlo davvero. Si scoprirà allora che non era un clown del lessico. Anche se sapeva recitare molto bene. Ed era «indeciso a tutto».

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