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di ANTONIO ANGELI Dopo la Seconda Guerra Mondiale c'erano molti più vincitori che vinti.

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Traquesti il generale Charles de Gaulle che, fuggito da Parigi con la croce uncinata sulla Tour Eiffel, sudò non poco per convincere tutti che la Francia, quella vera, la rappresentava lui. De Gaulle, rigidissimo guardiano della grandeur francese, quando la Francia era in ginocchio, pensò di castigare con durezza gli unici che, in quel momento, poteva castigare. I cugini italiani. De Gaulle negli anni tormentati tra lo sbarco in Normandia e la fine della guerra ideò e attuò un piano per impossessarsi di quasi tutta la Valle d'Aosta, di un bel pezzo di Piemonte, e anche di una parte di Liguria. Ci racconta questo ritaglio di Storia la penna acuta di un grande giornalista piemontese, Gino Nebiolo che, con rigore puntiglioso su ogni singolo momento storico, è riuscito a costruire un saggio che si legge con interesse e passione, come fosse un romanzo di guerra. «Soldati e Spie» dal lungo sottotitolo: «1945: la guerra finisce. I vincitori si spartiscono il mondo. De Gaulle vuole un pezzo d'Italia», è edito da Cairo Editore, 219 pagine, 14 euro. C'è da dire che l'Italia mussoliniana con i francesi s'era comportata molto male. C'era la famosa «pugnalata alle spalle» vibrata dai «cugini» (cioè noi). Quando le truppe di Hitler erano dilagate in Europa, nel '39, Mussolini attese la certezza della vittoria nazista per dichiarare guerra ad una Francia sconfitta. De Gaulle però si rifiutò sempre di considerare l'Italia che risorgeva dalla dittatura come un Paese che era cambiato e stava cambiando. Il generale era un uomo estremamente amareggiato. Aveva passato buona parte della sua vita all'ombra dell'eroe della Prima Guerra mondiale, Philippe Pétain. Con questo aveva avuto una brusca rottura perché, va riconosciuto, De Gaulle ebbe una lungimiranza e una lucidità di pensiero come nessun'altro in Europa. Capì che i tempi stavano cambiando, che la Francia aveva profuso ingentissime sostanze in armamenti vecchi e ormai inutili e che la sua amatissima Patria mostrava ormai il fianco a vecchi nemici. Sullo stemma di famiglia de Gaulle avrebbe potuto scrivere: «Ve l'avevo detto». E alla fine le cose andarono come temeva lui. Ma era un uomo duro, poco diplomatico, in certi casi antipatico. Il presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, lo definì una «Giovanna d'Arco con i baffi». E Churchill gli dava ragione: «Troviamo un vescovo che ce lo bruci». Quando, finalmente, la bandiera della libertà si riaffacciò in Europa, il generale fu durissimo. L'invasione francese del Piemonte iniziò alla mezzanotte del 23 marzo 1945. Americani e inglesi non erano d'accordo, ma le truppe della Francia libera affondarono nel territorio italiano. L'assalto francese fu tale che, caso unico nella guerra, repubblichini e antifascisti si trovarono a combattere, per alcuni giorni, dalla stessa parte. E non era un attacco di «alleggerimento», non si volevano tenere impegnate truppe naziste per mantenere la promessa fatta a Stalin di costringere Hitler a indebolirsi sul fronte orientale. No, quei territori italiani, che contenevano Aosta, Ivrea, Torino, Cuneo, Sanremo, Ventimiglia e Imperia de Gaulle se li voleva tenere per sempre. Ma il corso della Storia (e il carattere del presidente Usa Truman) portarono a un'altra conclusione. I francesi il Nordovest d'Italia non se lo sono preso. Si sono dovuti accontentare di molto meno.

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