Raffaello in salsa Dan Brown
diCARMINE MASTROIANNI Ci risiamo. L'ennesimo scoop alla Dan Brown in salsa rinascimentale. Stavolta a lanciare il sasso nello stagno è l'Espresso che apre con un titolo sibillino: «Il falso Raffaello» e una foto inusuale: «La visione di Ezechiele». Santi e artisti insomma, niente a che vedere con il Cavaliere nazionale, e questo è davvero il primo scoop, l'unico purtroppo. Tutto nasce dalla scoperta di un giovane studioso veneziano, Roberto De Feo, un Mr. Langdon in «codice Raffaello», che avrebbe riconosciuto in una tavola appartenente ad un collezionista ferrarese, «Visione di Ezechiele», l'autentico capolavoro del Sanzio, bollando come non autentica la copia conservata a Palazzo Pitti. Ma è davvero così? Per Antonio Paolucci che vive di pane e Raffaello ed è stato per tanti anni sovrintendente in quel di Firenze la questione non si pone nemmeno: l'originale resta quello della Galleria Palatina di Palazzo Pitti e la notizia «non sta in piedi» anzi è semplicemente fonte di «divertimento». E alle affermazioni del De Feo secondo cui Palazzo Pitti nicchierebbe per timore di perdere un capolavoro e la Sovrintendenza occulterebbe delle fantomatiche radiografie eseguite sulla Tavola Pitti in occasione dei 500 anni della nascita di Raffaello, Paolucci non ha dubbi nel replicare. Fu proprio lui che nel 1982 organizzò ed eseguì le analisi sul dipinto, alla Fortezza da Basso, insieme al restauratore Umberto Baldini. «Ho avuto tra le mani quella piccola tavola - precisa - e le posso garantire che non ci sono assolutamente misteri dietro la sua autenticità e nessun occultamento di prove. Quella di De Feo è una bella copia, forse antica, ma non ha niente a che vedere con l'originale». E a rincarare la dose versus De Feo ci pensa anche il prof. Maurizio Marini che nell'articolo dell'Espresso individua «troppe cose che non quadrano». La prima anomalia è costituita dalla firma individuata sulla tavola dal De Feo: SRV. «L'artista - spiega - non avrebbe mai anteposto il cognome al nome, sarebbe dovuto essere RSU, anche se Raffaello usava semplicemente RU». E persino nella mancanza di «segni di pentimento» sulla Tavola Pitti, ossia di correzioni apportate in corso d'opera sul dipinto, il De Feo è caduto in un grossolano abbaglio in quanto per il prof. Marini «si sa bene che i segni di possibili correzioni risalgono ai pittori veneziani del '600, a un Caravaggio. Nel '500 sono cose rare poiché gli artisti eseguivano un disegno preparatorio sulla tavola e quindi difficilmente correggevano il quadro in corso d'opera». E se non bastasse è noto che di falsi si può parlare a partire dall'arte contemporanea. Pittori come Raffaello avevano il copyright delle loro opere e potevano anche riprodurle o farle ricopiare nella loro bottega. Questo spiega la presenza sul mercato di copie «conformi all'originale». «Nella Tavola Pitti potrebbe esserci anche la mano di Giulio Romano - dice Marini - e non sarebbe una novità poiché l'urbinate aveva una bottega con più di venti collaboratori». Insomma probabilmente l'ennesimo abbaglio browniano in salsa nostrana.