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di CARLO ANTINI Quando salì sul trono di Roma aveva solo diciassette anni.

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Duedati della vita di Nerone che oggi fanno riflettere e sui quali accende i riflettori Roberto Gervaso nel suo nuovo «Nerone», biografia dell'imperatore romano pubblicata da Rubbettino. L'autore sottolinea che l'imperatore nato ad Anzio nel 37 dopo Cristo fu anche un mostro ma, per cinque anni, grazie ai consigli di Seneca, governò con saggezza. Poi ebbe la sventura di cadere sotto la penna di Svetonio e di Tacito che ne hanno tramandato un'immagine perfida e viziosa. Se Svetonio non l'avesse incluso nelle «Vite di dodici Cesari», se Tacito non fosse stato così nostalgico dell'ancien regime repubblicano, se l'uno e l'altro non avessero servito sotto imperatori tanto ostili a Nerone, il giudizio dei posteri su questo principe sarebbe stato più benevolo. Non che il figlio d'Agrippina vada assolto dai delitti che commise e dai misfatti che perpetrò. Assassinò la madre che stava congiurando per assassinare lui, spense col veleno il fratellastro a sua volta aspirante alla porpora, fece «suicidare» Seneca, suo ex precettore e ministro, e di cui per anni era stato il devoto pupillo. Crimini che non meritano alcuna indulgenza, ma dei quali non furono scevri altri sovrani: né il grande Augusto, che Voltaire definì «assassino vile e corrotto», né Tiberio, né Caligola, né Claudio, né «la delizia del genere umano», Tito, né «l'imperatore filosofo», Marco Aurelio. Nel suo libro, insomma, Roberto Gervaso sostiene che Nerone non fu più mostro dei suoi predecessori e successori. Fu solo più sfortunato. Sfortuna o no, la vita dell'imperatore conobbe numerose zone d'ombra, tra cui l'enorme incendio che divampò nella Capitale la sera del 18 luglio 64. Le azioni di soccorso ordinate da Nerone non bastarono a fugare il sospetto che la miccia fosse stata accesa dallo stesso principe. L'insinuazione venne fatta abilmente circolare fra il popolino, per sua natura alla caccia perenne di capri espiatori. Non tutti vi prestarono fede, ma i più avvalorarono la diceria sbandierandola. Secondo Gervaso l'incendio (e su questo gli storici più seri sono d'accordo) non fu doloso ma fortuito: dovuto al caso, non a un disegno criminale. Non era la prima volta, e non sarà nemmeno l'ultima, che l'Urbe prendeva fuoco. Già sotto Claudio e, nel 35, sotto Tiberio, era stata invasa dalle fiamme. Ma nessuno allora vi aveva speculato. Forse perché nessuno ne aveva avuto interesse. Allora Nerone fu davvero solo un mostro? A farlo rimpiangere furono soprattutto i successori, non meno crudeli di lui, ma tanto meno pittoreschi. Galba diede di sé una tale prova che, dopo sei mesi, fu assassinato dai soldati di Otone, il quale raccolse la precaria eredità. Nel libro anche le testimonianze di storici e studiosi. Benevolo il giudizio di Paratore: «È stato rimproverato a Nerone il suo estetismo, il suo filellenismo, culminante nel famoso viaggio in Grecia dove egli si fece premiare e coronare tante volte poeta, concesse ad Atene e alle città greche un'infinità di benefici e privilegi, fu insomma il beniamino del popolo greco». Dello stesso tenore Silvagni: «Se l'uomo, nella famiglia e nella casa, fu pessimo e, nei vizi, turpe, il principe fu piuttosto degno di lode che di biasimo». In tempi di lupi, Nerone non fu certo un agnello.

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