IL GIRADISCHIa cura di Stefano Mannucci
Cene ricordiamo ogni volta che uno dei grandi vecchi - di quelli che sono riusciti a cambiare il mondo con la semplice eppure immensa forza evocativa di una chitarra - si decide a farci dono di una sua nuova opera. Il settantenne Paul Simon non incideva cd dal 1996, dal tempo del non memorabile "Surprise". E ci si era subito affannati a darlo per finito, una bella copertina scozzese sulle ginocchia, una sedia a dondolo e buonanotte. Né ha giovato la complicazione sanitaria del suo antico sodale Garkfunkel: i due erano pronti a uno storico tour di riconciliazione (non il primo della serie, d'accordo), ma Art è affetto da una parziale paresi alle corde vocali, e adesso non sembra proprio il caso di insistere. Così Paul,dopo aver programmato il proprio giro mondiale di concerti (sarà il 17 luglio all'Arena di Milano) si è chiuso nella casa-studio in Connecticut (dove vive con la moglie cantautrice Edie Brickell), e con pazienza e serenità si è predisposto a scrivere nuovi brani, come un tempo congegnati attorno alle sei corde, agli accordi e alle melodie, per un parziale ritorno al passato di eccelso folksinger, ma senza buttare nella pattumiera quella ricerca sui ritmi esotici che aveva prodotto capolavori di world-music come "The rhythm of the Saints" o "Graceland". Così, "So Beautiful or So what" (dopo un accurato lavoro di editing e di ritocchi durato più di un anno) conserva la raffinata classicità del Simon autore vintage, ma ogni brano manifesta una propria originalità negli arrangiamenti come nella sceneggiatura. C'è il tema della trascendenza, che fa capolino tra le pieghe dell'album, c'è la vecchia consapevolezza politica (quella che divise, di fatto, Paul e Art, all'alba degli anni Settanta), ci sono sketch metropolitani struggenti come quelli scritti ai tempi di "Bookends". Il brano di apertura. "Getting ready for Christmas day, ronza allegrotto attorno al dramma della seconda guerra mondiale (è incrociato con il campionamento di un sermone del reverendo J.M. Gates che annuncia l'avvento dell'orrore), mentre in "The afterlife", danzereccio nella sua intelaiatura soul-calypso e doo-wop, anche i potenti si mettono in fila alle porte del paradiso, dopo aver riempito il loro bravo questionario d'accettazione. In "The rewrite", illuminato dal suono pungente della "kora" africana, incontriamo un reduce del Vietnam che spera in una sorte degna delle sue passate sofferenze, e intanto lavora in un autolavaggio. "Dazzling blue" percorre sentieri orientali (ecco le tabla indiane, come ai tempi in cui si andava a caccia di saggezza dal Maharishi), mentre "Love and hard times" è una sontuosa ballata che - non fosse per l'orchestrazione magistrale - si direbbe provenire direttamente dai solchi di "Still crazy after all these years" (datato 1975), e qui i protagonisti del racconto sono Dio e Gesù, che rispondono a una chiamata domenicale dalla Terra. "Love is eternal sacred light" fila via su binari blues-rockabilly, reminiscente del "Mistery train" di Elvis: e per questa riflessione sulla lotta fra il bene e il male spunta l'armonica del leggendario Sonny Terry. Ed è una carezza struggente l'arpeggio iniziale dell'eterea "Questions for the angels", con Simon che segue un pellegrino sul ponte di Brooklyn, nel momento in cui spunta il giorno e i barboni ripiegano i loro cartoni, chiedendosi dove dormiranno quanto tornerà il buio. L'amore - quello universale - torna a far interrogare Paul nella celestiale "Love & blessings" (impreziosita da registrazioni del 1938 del Golden Gate Jubilee Quartet), poi nella conclusiva "So beautiful or so what" viene evocato l'assassinio di Martin Luther King a Memphis. Un disco di incontenibile bellezza: dove l'esperienza umana e artistica si fondono nel gioco della saggezza. Non è musica per teenager: meravigliosamente anacronistica, e preziosa come poche. Voto 8 e mezzo su 10