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Perché morì la balena bianca

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Biancotuttavia, nel suo libro "La Balena bianca" scritto per le edizioni Rubbettino a quattro mani con Nicola Guiso, che ne ha raccolto i ricordi intervistandolo con domande incalzanti e documentate su un arco di tempo compreso fra il 1990 e il 1994, non attribuisce la fine della Dc solo a quel ciclone. Più che con i magistrati, e con i giornali ridotti a loro megafoni, egli se la prende con l'incapacità dimostrata dal suo partito di fronteggiare la situazione, di difendere la sua storia, di rinnovarsi, di rispondere alle attese di tanti elettori che avrebbero continuato a votarla solo se l'avessero trovata ancor in campo, ma davvero. Invece la balena bianca, come Giampaolo Pansa cominciò felicemente a chiamare la Dc quando ancora era forte, semplicemente spiaggiò. Esausta. Vittima di quelle che Bianco considera una sbandata "penitenziale" e una "corsa verso la dissoluzione". Eppure i parlamentari democristiani fecero un eccellente lavoro dopo le elezioni del 1992 per portare avanti la legislatura, nonostante le complicazioni politiche e umane derivanti dagli sviluppi delle indagini giudiziarie sul finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che spesso l'aveva accompagnata, anche se meno di quanto avessero pensato e contestato gli inquirenti. Molte, anzi moltissime sarebbero infatti risultate poi le assoluzioni nei processi, quando le indagini non finivano senza neppure arrivare al rinvio a giudizio degli indagati, che intanto avevano subìto la vergogna degli arresti cosiddetti cautelari, o della richiesta di arresto se deputati o senatori. Bianco ricorda con giustificato orgoglio il convinto sostegno dato dal suo gruppo a tutte le misure, spesso assai impopolari, adottate prima dal governo guidato da Giuliano Amato e poi da quello di Carlo Azeglio Ciampi per fronteggiare le gravi difficoltà economiche e finanziarie del Paese. E cita, a dimostrazione di quel lavoro, gli apprezzamenti espressi, in privato a lui e pubblicamente in dichiarazioni e libri, dai due presidenti del Consiglio e dall'allora presidente della Camera Giorgio Napolitano. Intensa fu l'attività parlamentare anche sul terreno diverso dall'economia. Fu tentata addirittura una riforma costituzionale con il varo di una commissione bicamerale presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti. Fu approvata la riforma elettorale conseguente al referendum contro il sistema proporzionale promosso da Mario Segni, per quanto non condiviso dal capogruppo democristiano per ragioni di principio e di merito. Fu radicalmente e - visti i risultati - incautamente ridotto l'istituto dell'immunità parlamentare per soddisfare le attese di trasparenza e di moralità cresciute con le inchieste giudiziarie. Fu adottata dalla Dc, senza neppure ricorrere ad una legge, su richiesta del penultimo segretario, che fu Arnaldo Forlani, la incompatibilità tra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Molto fu fatto anche per soddisfare il programma con il quale la Dc si era presentata alle elezioni, e alla cui preparazione proprio Bianco era stato chiamato da Forlani a sovrintendere sin dal 1990. Che proprio per questo è l'anno dal quale egli parte con la testimonianza di quella che si chiama, nel sottotitolo del suo libro, "l'ultima battaglia 1990-1994". Ma all'impegno dei parlamentari non corrispose quello dei dirigenti del partito, piuttosto indecisi e inerti di fronte agli eventi. Bianco non li attacca con durezza, nel suo stile di persona mite e cristianamente incline al perdono, ma non risparmia loro critiche, d'altronde più che sensate. A Forlani, per esempio, pur apprezzandone la chiarezza della linea politica adottata a difesa della collaborazione di governo con i socialisti quando erano ancora forti nella Dc le tentazioni di scommettere di più sui comunisti, Bianco rimprovera di avere troppo presto rinunciato nel 1992 alla candidatura al Quirinale. Se avesse insistito a farsi votare,, anziché ritirarsi dopo soli due scrutini, avrebbe potuto forse farcela a recuperare nel segreto dell'urna i voti di quei colleghi di partito che glieli avevano negati illudendosi di poter poi far decollare la candidatura di Giulio Andreotti. A Oscar Luigi Scalfaro, fortunosamente approdato al Quirinale al posto del segretario della Dc, Bianco rimprovera il troppo affrettato scioglimento delle Camere nel gennaio del 1994, a meno di due anni dalla loro elezione. Era quello che volevano i post-comunisti, che lo avevano votato alla Presidenza della Repubblica e si illudevano di vincere le elezioni anticipate. Esse invece avrebbero segnato lo strepitoso esordio politico di Silvio Berlusconi. Il capogruppo democristiano della Camera chiese inutilmente udienza al Quirinale prima di quello sciagurato scioglimento. A Mino Martinazzoli, succeduto al dimissionario e ormai rinunciatario Forlani alla guida dello scudo crociato, Bianco rimprovera di avere tollerato una perniciosa caccia alle streghe nel partito sull'onda del moralismo scatenato dalle cronache giudiziarie, emarginando ed escludendo dalla ricandidatura alle elezioni uomini che invece la meritavano. E che sarebbero andati a dare man forte a Berlusconi: primo fra tutti Pier Ferdinando Casini. D'altronde, Martinazzoli è lo stesso che all'indomani delle autorizzazioni parlamentari a procedere contro Craxi negate a scrutinio segreto dalla Camera tentò di dimettersi da segretario, pur avendo respinto in un incontro con i dirigenti del Pds-ex Pci, presente proprio Bianco, la loro richiesta di annunciare voto contrario al leader socialista. E' lo stesso che dopo la debacle elettorale del Ppi-ex Dc del marzo 1994 non si presentò neppure alla riunione della direzione del partito, preferendo mandare per fax le sue dimissioni. Bianco ne rimase giustamente allibito.

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