"Se mi sbaglio mi corrigerete"
«Se mi sbaglio, mi corrigerete». Comincia con queste parole, pronunciate al popolo di Roma e al mondo e scolpite per sempre nella memoria collettiva, l'avventura di fede e di testimonianza cristiana più straordinaria dell'ultimo secolo, la vicenda umana, spirituale e missionaria destinata a cambiare il volto della Storia e la comprensione religiosa degli eventi. Inizia così, con un errore linguistico destinato a inaugurare un saldissimo vincolo di amicizia con tutti i popoli del mondo, il pontificato di Giovanni Paolo II. Sono trascorse da poco le cinque del pomeriggio del 16 ottobre del 1978, «l'anno dei tre papi», e con 99 voti su 111 i «signori cardinali» eleggono il primo Papa slavo della storia della Chiesa, il primo Pontefice non italiano da oltre quattro secoli, dai tempi di Adriano VI. Per la fumata bianca sono stati necessari otto scrutini e un conclave in cui le preferenze si sono divise tra l'arcivescovo di Genova Giuseppe Siri e quello di Firenze Giovanni Benelli, tra i «conservatori» e i «progressisti». Ma si tratta di schemi ormai inservibili, di analisi semplicistiche e di colpo superate. Chi avrebbe mai pensato che alla loggia della Basilica di San Pietro si sarebbe affacciato quell'uomo di 58 anni, vigoroso e atletico, appena liberato dal sofferto stupore e dalla letterale «paura di essere Papa»? Lui, Karol Wojtyla, il Papa che non smetterà di sorprendere il mondo, alle 19,35 di quel lunedì si presenta con il celebre errore di pronuncia e quindi spiega che «gli eminentissimi cardinali» lo hanno «chiamato da un Paese lontano». Il nuovo successore di Pietro allude non tanto e non solo a distanze geografiche, ma geopolitiche: prefigura, come si appurerà con certezza 26 anni dopo nel libro di conversazioni «Memoria e identità», uno dei temi decisivi del suo pontificato, ossia la battaglia contro quella «cortina di ferro» la quale davvero rende lontani dal mondo i Paesi d'Oriente che egli ha nel suo cuore. Perché lui, Karol Jozef Wojtyla, in realtà non è lontano, ma si sente già romano, come proclamerà il 22 ottobre nella sua omelia per l'inizio del ministero pontificale. «Alla sede di Pietro a Roma - afferma - sale oggi un vescovo che non è romano, ma da questo momento diventa pure lui romano. Sì, romano!». Non è un caso che solo tredici giorni dopo la sua elezione salga alla Mentorella, al santuario mariano dei padri rogazionisti, accolto dal palpabile affetto dei romani così come era avvenuto nella sua primissima uscita pubblica in città, al Policlinico Gemelli, dove era andato a far visita a un amico vescovo. Alla Mentorella, al cospetto della Madre delle Grazie, Giovanni Paolo II rivela un altro dei punti cardine del suo magistero e manifesta il lato profondamente mistico del suo animo: «Cosa secondo me è più importante per il Papa nella sua vita, nel suo lavoro? Per il Papa la cosa più importante è la preghiera». Ma intanto c'è il mondo che lo aspetta, il mondo che attende di sapere chi è e che cosa farà il Papa venuto dal lontano. Giovanni Paolo fa capire da subito che intende rimettere al centro dell'universo, e non solo della cristianità, la figura di Gesù. «Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo», è la massima con cui dà avvio alla sua missione petrina. E per portare Cristo, per evangelizzare, per essere il Papa missionario che egli desidera diventare, Wojtyla sceglie lo strumento più efficace: il viaggio, il contatto diretto con i popoli e con le genti. Le prime due tappe del suo infinito pellegrinaggio (terreno eppure così profondamente spirituale) sono già indicative di un'intenzione netta: il nuovo Papa guarda con particolare interesse in due direzioni, al sud del mondo e ad Oriente. Non solo, ciò che preme a Giovanni Paolo II è l'incontro con le comunità reali, con le società in cammino; i fatti di carattere esclusivamente simbolico e burocratico non lo affascinano e non lo riguardano. All'inizio del '79 è in Messico, dove apre la conferenza episcopale latinoamericana, e i trionfi di folla sono impressionanti. In un Paese in cui le contraddizioni socioeconomiche generano sovente arretratezza e povertà, Wojtyla incontra gli indios e i campesinos e pone il messaggio della Chiesa come un cuneo dottrinale tra le aberrazioni del comunismo e le ingiustizie del capitalismo. Il mondo ora comincia a capire: l'uomo venuto da lontano si prepara a sconvolgere la terra impugnando il crocifisso.