Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

L'incontro impossibile tra il Papa e Stalin

default_image

  • a
  • a
  • a

Gliautori, del resto, costituivano una coppia ben collaudata reduce dall'altrettanto grande e clamoroso successo «Non votò la famiglia De Paolis», pubblicato due anni prima nell'imminenza delle elezioni del 1948. Il sodalizio fra i due era di antica data. Si erano conosciuti nel 1940 alla Direzione Generale della Stampa Estera del Ministero della Cultura Popolare. Uguccione Ranieri – rampollo di una illustre e nobile famiglia umbra, i marchesi Ranieri di Sorbello – era all'epoca poco più che trentenne, essendo nato a Firenze nel 1906. Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita presso l'Università di Roma si era trasferito negli Stati Uniti e lì, dove era stato per qualche tempo lecturer di italiano presso il Dipartimento di italianistica dell'Università di Yale, si era affermato per le sue conferenze pronunciate nei circoli culturali italiani e per i suoi articoli pubblicati, in lingua italiana o in lingua inglese, su molti giornali e periodici che si stampavano sulla costa occidentale. In quelle conferenze e in quegli scritti, il giovanissimo Ranieri, intriso allora di sentimenti nazionalisti, aveva portato avanti un'opera di diffusione della cultura italiana e si era speso – in linea con la simpatia per l'Italia fascista largamente diffusa negli Stati Uniti negli anni venti e nella prima metà degli anni trenta – per sostenere le ragioni della politica estera italiana soprattutto in tema di espansionismo coloniale ed era persino giunto a polemizzare con Gaetano Salvemini sostenendo che le conferenze che questi nel 1933 aveva tenuto a Yale erano da considerarsi offensive per il prestigio dell'Italia e lesive della dignità della comunità italo-americana. Rientrato in Italia nel 1936, aveva intrapreso la carriera di funzionario statale presso il Ministero della Cultura Popolare dal quale era immesso nei ruoli nel gennaio del 1938. Qui, come si è accennato, aveva incontrato Donato Martucci, un napoletano intelligente e arguto, col quale avrebbe stretto un sodalizio inossidabile e destinato a durare nel tempo. Questi era assai più giovane di lui, essendo nato nel 1916, e aveva una formazione culturale simile. Anch'egli si era laureato in giurisprudenza, ma all'Istituto Orientale di Napoli e conosceva diverse lingue: il francese, l'inglese, il tedesco, il giapponese e anche qualche rudimento di cinese. Il concorso al Ministero della Cultura Popolare lo aveva vinto, senza raccomandazioni di sorta nel 1940 mentre era ancora sotto le armi.(...) (...) In quell'ufficio – come raccontò Martucci nel 1994 a Ruggero Ranieri, il figlio di Uguccione, in una bella, lunga e articolata intervista ancora inedita – dove lavoravano funzionari, nella grande maggioranza appartenenti al Ministero degli Esteri, venivano gestiti i rapporti anche logistici con i giornalisti stranieri, veniva preparato il materiale per la conferenza stampa che quotidianamente Rocco faceva a loro e veniva predisposta la rassegna della stampa estera per Mussolini, che doveva essere, per sua esplicita richiesta, di una pagina e un terzo (non un rigo in più né in meno) battuta con una macchina speciale a caratteri grandi perché il Duce evitasse di usare gli occhiali da presbite. L'intesa tra Martucci e Ranieri scattò immediatamente, fu un incontro di affinità elettive, tanto che i due si provarono a scrivere a quattro mani una commedia in tre atti, dal titolo (alquanto irriverente in un'epoca nella quale era stato tassativamente vietato l'uso del Lei) «Diamoci tutti del tu» (...) (...) Se Martucci era un liberale di formazione crociata, Ranieri, messa da parte la giovanile infatuazione nazionalista, era ormai diventato un liberale di formazione e mentalità anglosassone. Il suo distacco dal fascismo era maturato presto, dopo il suo rientro in Italia, al contatto con la realtà del regime e si era rapidamente tradotto in un vero e proprio impegno antifascista che la guerra rese sempre più determinato. Nell'inverno 1942-1943, Ranieri, ormai entrato in contatto con il mondo della cospirazione antifascista degli intellettuali raccolti attorno alla Principessa di Piemonte, prospettò, in diversi incontri, a Maria Josè progetti più o meno velleitari che andavano dall'ipotesi di uccidere Mussolini a quella di un colpo di stato al Quirinale fino, addirittura, all'idea di organizzare la fuga in aereo della Principessa e del figlio per far sì che potessero raggiungere le truppe alleate già sbarcate in Sicilia. Ranieri era ormai diventato repubblicano, ma, come disse a Edgardo Sogno del quale era diventato amico, pur di «spazzare via i fascisti» avrebbe fatto «qualunque cosa», anche un «messaggio al Re». In effetti i due scrissero l'appello, Sogno lo sottopose a Benedetto Croce e a Casati, lo consegnò a Giuliana Benzoni, che lo nascose dietro un quadro e ne dette copia alla sua amica Iris Origo la quale, in seguito l'avrebbe parzialmente pubblicato nel suo bel libro Guerra in Val d'Orcia. Dopo il crollo del fascismo e all'indomani dell'8 settembre, entrato in contatto con il britannico MI9, Ranieri si distinse nel difficile e pericoloso incarico di organizzare il recupero, la fuga e il passaggio attraverso il territorio occupato dai nazisti dei prigionieri di guerra alleati: un impegno questo che gli valse il conferimento della medaglia d'argento al valor militare. Per qualche tempo, a partire dall'ultimo scorcio del 1944, Ranieri e Martucci condivisero, a Roma, un appartamento in via Due Macelli che divenne ben presto un punto di ritrovo del mondo culturale e giornalistico romano ma anche un punto di riferimento per alcuni corrispondenti stranieri, inglesi e americani soprattutto. Tra i frequentatori, vi furono, per esempio, Luigi Barzini o Edgardo Sogno, entrambi amici carissimi di Ranieri, malgrado la diversità di opinione nei confronti della monarchia, dal momento che Ranieri, come pure Martucci, era diventato repubblicano e si era avvicinato alla corrente più moderata e liberale del Partito d'Azione. Alla vigilia delle elezioni del 1948, Ranieri e Martucci pubblicarono, prima sul settimanale «Oggi» poi come libricino da Longanesi, il racconto di fantapolitica «Non votò la famiglia De Paolis» che riscosse un clamoroso successo e che, approvato da Andreotti e distribuito capillarmente durante la campagna elettorale, contribuì non poco all'esito dello scontro fra la Dc e il Fronte Popolare. Il racconto, scritto in forma epistolare, narrava di un professore della media borghesia romana, moderato, monarchico e anticomunista, che il giorno delle elezioni preferisce una gita alle urne contribuendo così alla vittoria del Fronte Popolare, che, poco alla volta, attraverso un graduale ma inesorabile meccanismo di repressioni, intimidazioni, processi trasformerà il paese in una dittatura popolare della quale rimarrà tragica vittima lo stesso ingenuo professor De Paolis. E sempre vittima il professor De Paolis sarà in un'altra versione del racconto, rimasta inedita, nel cui finale i due autori – anticomunisti sì e impegnati nella lotta contro il Fronte Popolare, pure, ma in fondo non troppo vicini alla Dc e sostanzialmente laici con qualche venatura anticlericale – ipotizzavano un finale diverso con l'instaurazione in Italia, dopo la vittoria dei cattolici, di una tirannide a base teocratica. Attorno alla paternità del racconto – e malgrado il fatto che esso fosse stato pubblicato prima che in volume su un settimanale, «Oggi», a larga diffusione – si creò una vera e propria leggenda che tuttora, in molti ambienti, persiste. Si diffuse la voce, del tutto infondata, che il vero autore del pamphlet fosse o Leo Longanesi o Giovanni Ansaldo. Quest'ultimo, che il 5 aprile aveva già definito nel suo diario il libro «un piccolo capolavoro», dopo le elezioni pubblicò, quasi a voler smentire ufficialmente la diceria di esser lui l'autore, un articolo di commento politico alle elezioni del 1948 su «L'Illustrazione Italiana» dal titolo «La famiglia De Paolis ha votato».

Dai blog