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Quando Rudi il Rosso mise a tacere Marcuse

La caduta del muro di Berlino nel 1989 segna l'avvio dell'individualismo

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Parabola ideologica di una generazione. Estate del 1967, aula magna della libera università di Berlino Ovest. Lo studente, che diventerà di lì a breve una leggenda vivente con il nome di battaglia di Rudi il Rosso, esplode in una vibrata protesta rivolta al relatore che ha appena terminato di svolgere il suo intervento sul tema «Morale politica nella società opulenta»: il titolare della cattedra di politologia all'università di San Diego, professor Herbert Marcuse. Rudi Dutschke ha già ventisette anni ma è ancora uno studente, anche perché il governo della Germania Est, dove è nato, gli ha vietato l'iscrizione all'università per aver rifiutato il servizio militare. Se si è potuto iscrivere all'Ovest è solo perché in quel mattino del 1961 si è trovato per caso dalla parte giusta del Muro. Ma quello scontro fra il vecchio ebreo berlinese, scappato in California per sfuggire al nazismo, e il giovane tedesco dell'Est scappato all'Ovest è solo apparente, un tributo che il secondo deve pagare a se stesso e alla fama di contestatore totale che si sta costruendo. Non a caso riguarda la definizione di totalitarismo, una realtà che entrambi conoscono bene per averla sperimentata di persona, e che in entrambi determina la stessa viscerale avversione. Qualunque cosa i due credano che sia. Ma il dibattito, archetipo di tanti dibattiti «democratici» che seguiranno, prende presto una piega anomala. Man mano che gli interventi si alternano, che a domande cervellotiche seguono risposte fumose, che i vietcong si mischiano alla repressione culturale e la libido a Karl Marx, che avrà delle colpe ma questa proprio no, Dutschke, l'irriducibile Dutschke che vuole espropriare le case editrici, appare sempre più mite. La sua aggressività devia dal luminare che ha di fronte per rivolgersi ai suoi critici. Le risposte di Marcuse lo ipnotizzano, le ripete, ne abbraccia le tesi, attacca chi vi si oppone. Se Marcuse lo corregge, lui subito si adegua, umile come non avrebbe mai sospettato di riuscire a essere. Con un'imprevedibile inversione di prospettiva - il giovane che omaggia il vecchio, il ribelle che si inchina all'autorità -, Rudi aspira a una cosa sola: riscuoterne l'approvazione e riceverne l'investitura. (…) Se si vuole risalire e trovare un filo conduttore in un decennio che ha così pesantemente inciso sulla configurazione della società, sulle idealità che la percorrono e i rapporti di forza che la segnano, occorre tornare a Berlino, a quel dibattito di quattro giorni, il giuramento della Pallacorda della contestazione, il Concilio di Nicea del rifiuto. È quello l'attimo in cui fu interrato il seme di una pianta che non ha più smesso di germogliare: «Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali per realizzare una società libera. Il fatto che non vengano utilizzate è da ascriversi a una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione. Possibile è l'eliminazione della povertà e della miseria; possibile l'eliminazione del lavoro estraniato; possibile l'eliminazione di ciò che io ho chiamato surplus repression. Io credo che su questo giudizio possiamo considerarci relativamente d'accordo con i nostri avversari. Nessun economista borghese di una certa serietà è oggi in grado di contestare la effettiva possibilità di eliminare la fame e la miseria con le forze produttive materiali e intellettuali già tecnicamente esistenti». Sono queste le parole che stregarono tutti i piccoli Dutschke del mondo e, per il loro tramite di leader politico-studenteschi, un'intera generazione, un'intera futura classe dirigente. Come nel Manifesto di Marx ed Engels, erano stati gli antagonisti della rivoluzione a fabbricare le armi con cui sarebbero stati seppelliti. Quegli economisti borghesi, emblema di una cultura occidentale composta di libertà civili e conquiste materiali che si autocelebrava, quegli aedi della società opulenta, generavano aspettative. Se simili conquiste erano state possibili nulla poteva essere più negato e quell'opulenza doveva divenire oggetto di una rivendicazione di massa, del tutto slegata dai presupposti materiali, dall'avvedutezza delle scelte politiche, dal sacrificio e dal rischio dei singoli, dalla fatica che erano stati in grado di produrla. La fine dell'utopia, è questo il titolo del libro che riporta gli atti di quel convegno, non era un'incitazione al realismo, ma l'esatto opposto: la rivelazione che il paradiso terrestre non era più un sogno ma una realtà a portata di mano. E tuttavia, di nuovo come nel Manifesto, si scambiavano aspirazioni soggettive, per quanto diffuse, di eguaglianza e di progresso per condizioni oggettive e materiali, e si raccontava, a qualcuno che non vedeva l'ora di sentirselo dire, che le sue aspirazioni erano possibili e tutto stava nel prenderne coscienza e nel rivendicarle. La differenza con il Manifesto è tutta qui: questo parlava di condizioni materiali, Marcuse, che sapeva di rivolgersi a dei borghesi, di conseguimenti intellettuali, di consapevolezza(…) Del resto, una simile rivelazione non poteva che attecchire su una categoria come gli studenti che, per definizione, era aliena da quel duro contatto con la realtà che è il lavoro, e aveva di fronte a sé un futuro abbastanza lungo da poter credere che quell'era messianica potesse avverarsi durante la loro vita. Come i cristiani di Tessalonica nel i secolo della nostra era, i giovani del movimento, che furono i lavoratori degli anni settanta e sono la classe dirigente di oggi, credettero all'avvento del Messia che veniva loro annunciato perché avevano una gran voglia di crederci e di disporre della giustificazione culturale per le loro aspirazioni. E come i loro antesignani che, nella convinzione che il ritorno di Cristo fosse imminente, smisero di lavorare e di rispettare le leggi, anche i protagonisti degli anni formidabili non si posero problemi che non fossero quelli di rivendicare la soddisfazione dei bisogni e di organizzarsi per ottenerla contro un sistema che, per ragioni inspiegabili, si ostinava a condizionarla a variabili dal loro punto di vista superate, anziché riconoscerla come una necessità storica consentita dal progresso. I tessalonicesi, tuttavia, furono più fortunati: Paolo, preoccupato della piega che avevano preso, inviò loro una seconda lettera, nella quale spiegava che il Messia sarebbe tornato, sì, ma parecchio più avanti. E perciò nel frattempo, business as usual, era il caso di tirarsi su le maniche e ricominciare a darsi da fare. I tessalonicesi di Berlino e i loro emuli italiani, purtroppo, quella seconda lettera non l'hanno mai ricevuta. Anzi ricevettero, alla fine di quei quattro giorni, un'ulteriore promessa. «Arrivederci l'anno prossimo, qui» disse loro il professor Marcuse, riecheggiando quella formula - l'anno prossimo, a Gerusalemme -, fra la speranza, il dolore e l'autoironia, con cui da sempre gli ebrei della diaspora si salutano fra loro. Quell'anno prossimo sarebbe stato il 1968, e il suo 31 dicembre non è ancora arrivato.

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