Tutte le profezie di Keynes
«Gli economisti devono lasciare la gloria del grande volume in quarto al solo Adam Smith, devono vivere alla giornata, gettare pamphlet al vento e ottenere l'immortalità, semmai, per caso». Così scriveva John Maynard Keynes nel 1924 (...). Ma con quelle affermazioni al limite della provocazione in realtà Keynes alludeva a sé stesso (...). Nel 1931 apparvero gli Essays in Persuasion (...) nei quali aveva voluto raccogliere, come scrisse con autoironia, «i gracidii di una Cassandra che non è riuscita a influenzare in tempo gli avvenimenti», e che forse – aggiunse – avrebbero dovuto essere intitolati Essays in Prophecy and Persuasion, «perché sfortunatamente la profezia ha avuto maggior successo della persuasione». In quella silloge comparivano sei dei saggi presenti in questo volume, fra cui La fine del laissez-faire, Sono un liberale, Possibilità economiche per i nostri nipoti e Un breve sguardo alla Russia, che forniscono una preziosa testimonianza delle posizioni di Keynes in materia di economia, ma anche di politica: la critica dell'utilitarismo benthamiano, il giudizio sul socialismo, la valutazione del capitalismo come sistema economico e sociale, la visione anticipatrice che in futuro (e lo si vede dall'importanza che stanno assumendo oggi in seno ai Parlamenti le questioni etiche) problemi come «il controllo delle nascite e l'uso degli anticoncezionali, le leggi sul matrimonio, il trattamento dei reati a sfondo sessuale e delle diversità, la posizione economica delle donne, le questioni della famiglia» debbano entrare a pieno titolo nella discussione politica. (...). Si può dire che, sul terreno dell'economia, la destinazione verso la quale muoveva il pensiero di Keynes fosse chiara fin dalla metà degli anni Venti. Il suo giudizio sul sistema capitalistico era pieno di chiaroscuri. Se da un lato ne vedeva la forza espansiva, dall'altro non poteva non avere, nei suoi riguardi, riserve di ordine morale, poiché il motore che lo muoveva era alimentato dalla cupidigia del guadagno (...). E quelle riserve erano tanto forti da spingerlo a prefigurare, in Possibilità economiche per i nostri nipoti, un futuro in cui – una volta liberati gli uomini, grazie al progresso tecnologico, dalla schiavitù di doversi procurare i mezzi di sussistenza attraverso il lavoro e la fatica – «l'amore per il denaro, per il possesso del denaro – da non confondersi con l'amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita –, sarà, agli occhi di tutti, un'attitudine morbosa e repellente...». Giunti, infatti, a quel punto, sarebbe bastata una settimana lavorativa di quindici ore per produrre il necessario, mentre il resto del tempo avrebbe potuto essere impiegato per vivere «in modo saggio, piacevole e bene». Purtroppo, aveva aggiunto, quel tempo era ancora lontano (circa un secolo, calcolava, e vista la situazione di oggi si può dire che, per le aree più ricche del pianeta, il calcolo non fosse del tutto errato), e dunque per il momento bisognava riconoscere, come dicono le streghe nella prima scena del Macbeth di Shakespeare, che «fair is foul and foul is fair», e cioè che quello che è buono – il disinteresse, l'ozio e l'altruismo – non è utile al progresso economico, e quello che è cattivo – l'avidità di denaro e l'ingordigia – in realtà serve alla crescita. Ma anche senza spingere lo sguardo a un futuro che poteva apparire utopico allora – oggi un po' meno – gli sembrava ingiustificata la fiducia nella forza spontanea di quella «mano invisibile» di cui si facevano apologeti i cantori del mercato, che rappresentavano l'ortodossia dominante. Per il Keynes della Fine del laissez-faire (...) il mercato in quanto tale non era uno strumento perfetto, capace di realizzare una condizione economica ottimale e di garantire sempre e comunque la piena occupazione dei lavoratori. Non è vero – aveva scritto – che «per effetto di leggi naturali, gli individui che perseguono il proprio interesse in modo illuminato e in condizioni di libertà tendano sempre, nel contempo, a promuovere l'interesse generale», e che quindi «il filosofo politico poteva cedere il posto all'uomo d'affari, poiché quest'ultimo avrebbe realizzato il summum bonum del filosofo perseguendo il suo profitto privato». Una simile idea gli sembrava destituita di fondamento: «Il mondo non è governato dall'alto in modo che l'interesse privato e l'interesse sociale coincidano sempre, né è governato dal basso di modo che essi coincidano all'atto pratico. Non è una deduzione corretta dai princìpi della scienza economica che l'interesse personale illuminato operi sempre nell'interesse pubblico, né è sempre vero che l'interesse personale sia illuminato». Questo tuttavia non significava che altri sistemi potessero garantire risultati migliori, e il suo viaggio in Russia (...) aveva corroborato la sua convinzione che il socialismo e il comunismo non avessero niente da offrire sul piano della gestione economica. Aveva così concluso: «Da parte mia, penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi sistema alternativo sinora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé esso sia per molti versi estremamente criticabile». Se la destinazione era chiara, cioè dimostrare che il laissez-faire non era perfetto, e che era necessaria una saggia agenda di governo per correggerne le lacune e le manchevolezze, e se questa diagnosi era stata confermata, all'inizio degli anni Trenta, dalle cifre tremende della disoccupazione – che in America e in Gran Bretagna aveva toccato il 25-30 per cento della forza lavoro –, individuare in che cosa esattamente consistesse l'errore nelle ortodossie economiche dominanti era un problema difficile.(...).