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di SARINA BIRAGHI Si comincia con il giornalino in classe o in parrocchia e si finisce per fare la giornalista.

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Unaprofessione? No, un mestieraccio. Considerato troppo romantico, sempre molto chiacchierato, tanto mitizzato, ma il più delle volte poco capito per le infinite emozioni che ti provoca e che spesso non puoi raccontare per mancanza di spazio. Una tenera passione, il giornalismo, che non ti abbandona mai e che nessuna minacciosa «rete» o multimedialità può spegnere. È un viaggio lungo questa passione, passata attuale e futura, ma anche un meraviglioso tuffo all'indietro «Confessione reporter» (Ponte alle Grazie, pag. 292) di Stella Pende, giornalista, inviata speciale per l'Europeo negli anni Novanta e fino al 2009 per Panorama, oggi inviata di Video News di Mediaset. Il sottotitolo del libro, però, «Quello che non ho mai scritto» spiega cosa c'è dietro ogni avventura giornalistica e che un «cerbero» come il direttore e un «inflessibile» come lo spazio, non ti consentono di scrivere: «gli appuntamenti e le miserie per portare a casa l'osso, le attese e le buche, i direttori, i colleghi amici e le carogne, ma anche la commozione, gli incontri e i riti della redazione». E così la Pende racconta il dietro le quinte di venti reportage in luoghi geografici lontanissimi tra loro (Iraq, Afghanistan, Sarajevo, Gujarat, Gaza), con sfondi altrettanto vari (guerre, carceri, ospedali, terremoti), ma anche incontri fatali, da Gheddafi, il raìs incontrato sotto le stelle dopo un anno di attesa, al terrorista Khaled Meshaala fino a García Márquez, splendente e indimenticabile premio Nobel della letteratura, fino all'eroica maestra dei bambini intrappolati nel fuoco della scuola di Beslan. «In ogni acrobatica avventura giornalistica - dice Stella Pende - certi dettagli di incontri, ricordi e sentimenti restano fatalmente attaccati alla penna, appesi alla frustrazione della memoria». Perché quando Carlo Rossella la inviò a Sarajevo la Pende si affacciò «ad una finestra aperta sul dolore dell'umanità dolente e sulla ferocia della guerra aguzzina che trita eventi e innocenti». Ma quando devi mandare il pezzo, che il caporedattore traduce in settemilacinquecentosette righe, non una di più, ti rendi conto che puoi fare solo la «beccaccia scribacchina» afferrare notizie e particolari qua e là, ma certo non puoi raccontare il pugno allo stomaco davanti alle case straziate dalle bombe a Gaza, o al cimitero dei bambini di Beslan o davanti ai nuovi martiri cristiani dell'India... Stella ha ritirato fuori dai cassetti i blocchi di appunti e quelle ombre fruscianti di personaggi noti e sconosciuti si sono fatte avanti, quella nebbia che avvolgeva i ricordi si è diradata insieme alla nostalgia ed è nato «Confessione reporter». Ad ogni articolo c'è un «prima» e un «dopo» del pezzo effettivamente pubblicato che contengono proprio quel «mai scritto» così umano e vero. Soprattutto quanto di femminile può esserci perché malgrado tutto, il giornalismo delle donne è diverso. L'autrice coraggiosamente ammette, infatti, che una giornalista non può mai dimenticare di essere donna, ma soprattutto madre. Come fa un'inviata che vede una mamma cullare il proprio bambino morto di stenti a staccare dalla sua carne rabbia ed emozioni? In fondo è lo stesso sguardo con cui lei prima di partire per un viaggio di lavoro, ha guardato suo figlio con il senso di colpa che le attanagliava la gola... Ecco, ad una donna questo lavoro regala spesso più pena, paura e rimorso rispetto ai colleghi maschi ma la Pende affida la «difesa» alla leggenda del reportage moderno, il polacco Ryszard Kapuscinski, quello che i colleghi chiamavano «l'inviato di Dio»: «Il cinismo non fa mai un grande giornalista. Non puoi far giustizia al dolore di una madre davanti al figlio morente se non muori un po' anche tu». Bisogna farsi trafiggere dal dolore per raccontarlo e dare un'anima a quelle settemila o tremila righe... È per questo che un reporter può commuoversi. Per diritto umano e dovere professionale.

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