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Addio Liz, diva amorosa

Liz Taylor

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È stata una Diva, e con la maiuscola, ma anche una grande attrice e non solo per i meriti che, in oltre mezzo secolo di carriera, con discutibile parsimonia, le avevano fatto ottenere due Oscar. Cominciò prestissimo, e bene: a soli undici anni, in «Torna a casa Lassie» (1943), avendo come partner il cane più celebre d'America; e continuò con un cavallo, in «Gran premio» (1944), sempre con quel bel faccino angelico, lontano però dalle moine di una Shirley Temple. Un faccino che l'avrebbe seguita anche quando, da bambina prodigio, cominciò a diventare una dolce fanciulla in fiore, nitida e chiara. Arrivarono i successi tutta grazia di «Vita col padre (1947) e di «Piccole donne» (1949). Da qui, però, la svolta: la crisalide, adesso, aveva belle ali di farfalla e soprattutto con un regista come Vincent Minnelli imparò a volare incominciando a trovare un tono, un carattere. Ne «Il padre della sposa», ad esempio, vicino a Spencer Tracy (1950), in «Papà diventa nonno», sempre con Tracy (1952). Seguirono, agli inizi dei Cinquanta, i suoi due primi incontri «fatali», quello con Montgomery Clift in «Un posto al sole» (1951) e quello con James Dean nel «Gigante» (1955), entrambi di George Stevens. Clift ne uscì turbato per sempre (rimarrà la sola donna della sua vita); Dean la inserì nella sua leggenda, mistero tuttora insoluto, ma in nero. Con il "nero", intanto, che dilagava anche attorno a lei. Non solo nei nuovi personaggi, sempre più aspri e decisi, come ne "La gatta sul tetto che scotta" (1958) di Richard Brooks, ma in quell'esistenza turbinosa, nonostante un'apparenza quieta, in cui cominciavano ad avvicendarsi molti mariti. Prima Conrad Nicholas Hilton jr, l'erede della catena alberghiera, sposato a diciott'anni. Poi l'attore inglese Michel Wilding che aveva vent'anni più di lei. Poi il produttore Michael Todd che dopo averle dato una figlia, Liza, andò a sfracellarsi con il suo aereo privato battezzato Liz contro dei monti che si chiamavano Taylor... Vedova, rubò il marito Eddie Fischer alla sua migliore amica Debbie Reynolds e spinta dalle gioie di questo nuovo matrimonio si impegnò così intensamente nel lavoro da meritarsi il primo Oscar: per "Venere in visone" di Daniel Mann (1960). Ma l'aspettava a Roma "Cleopatra" (1963) di Joseph Mankiewicz, un kolossal che però Liz, con la sua bellezza fatata (e sempre più fatale), con i suoi occhi nero-viola e l'immacolato candore della sua pelle seppe trasformare nel monumento di se stessa, il più alto, forse, e il più abile, che una diva sia riuscita a farsi dedicare. Ma l'altro protagonista era Richard Burton che, presto sposato dopo molte crisi, finì per avere su di lei un'influenza benefica, almeno sul piano professionale. Liz era già attrice salda, anche con risvolti drammatici; diventò - cosa rara a Hollywood - anche un'attrice tragica, con tutta quella gamma di proposte che doveva imporsi (fino ad un secondo Oscar) nel terribile «Chi ha paura di Virginia Woolf» (1966) di Mike Nichols. Seguì, con una gestualità sempre più aggressiva, «La bisbetica domata», da Shakespeare, del nostro Zeffirelli. Da cui uscì una terza Liz, quella che, durante tutti i Sessanta, moltiplicò quasi con golosità le furie, gli eccessi istrionici, perfino certe volgarità: in «Riflessi in un occhio d'oro» (1976) di John Huston, ne «La scogliera dei desideri» (1968 e in «Cerimonia segreta» (1969) entrambi di Joseph Losey. Scura, tortuosa, anche un po' vampiresca, con tale gusto di dissacrarsi da lasciarsi convincere da George Cukor a girare una coproduzione in Unione Sovietica, «Il giardino della felicità» (1976), in cui si proponeva a metà come fata ma a metà anche strega. Intanto però altri divorzi, altri matrimoni e, soprattutto altri lutti: non solo Richard Burton ma anche Rock Hudson, con una continua serie di sventure e di malanni da autorizzare qualcuno, ogni volta che si ritrovava in fin di vita, a paragonare la sua sorte a quella tristissima dei Kennedy. Fino a lasciare quasi del tutto il cinema, dopo «Il giovane Toscanini» (1988) di Zeffirelli e «I Flintstones» (1994) dai fumetti di Hanna e Barbera, per dedicarsi anima e corpo alla sua guerra personale contro l'AIDS, in memoria del suo sempre compianto Rock Hudson. A Cannes, ad ogni festival, c'era lei, sempre più fragile, ma sempre più fermamente votata al suo scopo. Fino all'ultimo.

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