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Rifare via Giulia com'era

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diLIDIA LOMBARDI Magari non ci facciamo più caso, ingolfati in macchina sul Lungotevere. Ma se imbocchiamo dal lato carcere Regina Coeli il ponte Mazzini per trasbordare sull'altro lungotevere, ci troviamo di fronte un buco. Una cesura tra la sequenza di palazzi, palazzetti, cupole che fanno bella Roma. Un'inquietante assenza. Che cosa è successo? Che nel 1939 il regime del Duce mise in atto quanto stabilito dal piano regolatore di otto anni prima: buttò giù un pezzo di città del Rinascimento. Due edifici, Palazzo Lais e Palazzo Ruggia - fronte su via Giulia lato su vicolo della Moretta - e l'isolato di San Filippino, una volta convento. Il cratere che si era formato avrebbe dovuto permettere la costruzione di un viale che salisse fino al Gianicolo. Un'«operona» urbanistica che - secondo le manie di grandezza di Mussolini - avrebbe dato ulteriore lustro al Regime. Invece l'Italia entrò in guerra, avvenne quel che avvenne e del progetto non si fece più nulla. Restò il vuoto e la ferita della strada che papa Giulio II aveva voluto per indirizzare più facilmente pellegrini e fedeli verso il fulcro della Basilica di San Pietro collegando Ponte Sant'Angelo e Ponte Sisto. Una via che già aveva subito, con la realizzazione dei lungotevere, lo sfregio di veder tranciati i palazzi Sacchetti e Falconieri. E che è ancora priva di un pezzo, nonostante nel 2008 abbia celebrato il cinquecentenario. Eppure qualcosa si muove. Facendo accapigliare però due correnti di pensiero di architetti. «Conservatori» e «modernizzatori», potremmo chiamarli. E la bilancia «politica» pare pendere per i secondi, poiché lo scorso febbraio il sindaco Alemanno ha dato incarico a sette di loro (Aldo Aymonino, David Chipperfield, Stefano Cordeschi, Roger Diener, Paolo Portoghesi, Franco Purini e Giuseppe Rebecchini) di elaborare un progetto per la zona della Moretta. Il malumore serpeggia tra i «conservatori» che si riuniscono attorno alla rivista «Il Covile». Sono quanti vedono come il fumo agli occhi le astruserie delle «archistar»: Paolo Marconi, Ettore Maria Mazzola, Nikos Salingaros, Piero Pagliardini, Stefano Serafini. Il quale attacca «l'insulso postmodernismo antifilologico che il Sindaco, accodandosi ai suoi predecessori, vorrebbe conficcare nel centro storico più bello del mondo e ritenuto un tempo intoccabile». E infatti il criterio adottato dal professor Marconi, al quale il Campidoglio si era inizialmente rivolto, è quello del restauro filologico. In soldoni, rifare i palazzi com'erano prima degli sventramenti. Nei disegni in questa pagina vediamo come si potrebbe riempire il «buco» di via Giulia. È il progetto di risanamento sviluppato nel 2009 dagli studenti del professor Mazzola, che prevede di utilizzare gli edifici rifatti come sede dell'Università per stranieri. Destinazione d'uso rilanciata ora da Alemanno. Ciò che paventano gli architetti de «Il Covile» è il replicarsi di progetti estranei alla città come la contestata Teca per l'Ara Pacis di Meier. Così rigettano tra le altre la proposta di Portoghesi: costruire i nuovi palazzi in stile vicino a quello originario marcando però la «differenza epocale» con «spigoli di acciaio». Ribattono: un muro di mattoni nuovi accanto a quello di mattoni vecchi è evidente, senza bisogno di ricorrere ad altri segnali. Rifare com'era offre anche il vantaggio di utilizzare le murature e gli ambienti al di sotto del piano stradale, che lo sventramento del '39 salvò. E «riformare una manodopera specializzata in tecniche murarie che stiamo dimenticando», dice Mazzola. Un'operazione affascinante che la Capitale si merita.

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