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De Felice al microfono

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diRENZO DE FELICE Una prima embrionale idea di Europa è riscontrabile sin in Erodoto e in vari altri scrittori classici. La maggioranza degli studiosi sono però d'accordo nel non far risalire il formarsi di una vera e propria idea di Europa al di là del XVI secolo. È sotto l'urto del pericolo turco (così come per l'antica Grecia del pericolo persiano) che l'Europa incomincia a prendere coscienza di sé, confrontandosi con gli altri continenti, le loro civiltà, i loro assetti politici. Con il Settecento, con l'Illuminismo, l'Europa ha già realizzato una sua ben precisa autocoscienza, si è resa conto della sua specificità. Per Montesquieu essa si identifica con la Libertà (così come la non Europa si identifica con il dispotismo), per Voltaire essa è un potente organismo unitario, abbracciante tutti gli aspetti dell'attività e del sapere umani. L'idea di Europa è a quest'epoca già formata, almeno nei suoi elementi essenziali. È però ancora un fatto di élite; la Rivoluzione Francese e l'Impero napoleonico ne fanno tosto un fatto generale, di tutte le classi e di tutti i ceti sociali, dandole al tempo stesso anche un nuovo contenuto che si aggiunge a quello morale, culturale, spirituale ed economico: il contenuto sociale. Negli anni tra il 1815 e il 1848 l'idea di Europa raggiunge, infine, il suo apice. La grande fioritura romantica realizza compiutamente l'Europa dei popoli. Storici come Guizot e Sismondi, politici come Mazzini e Cattaneo, filosofi come Hegel ne fanno il fulcro del loro pensiero. Ad essa guardano i pacifisti di tutti i paesi. Nel 1848-49 la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa corre sulle bocche di Victor Hugo e di Carlo Cattaneo, di Bakunin e del De Girardin. Il fallimento della «primavera dei popoli» porta però con sé anche un ripiegarsi in se stessa della coscienza europea. Le nazionalità tendono negli anni successivi a dar vita ai nazionalismi. L'Europa perde vigore unitario, cessa rapidamente di costituire una realtà e rimane un ideale di pochi. Sadowa e Sedan segnano la fine dell'Europa come idea-forza. Nel 1876 Bismarck annoterà: «Europa, nozione geografica!» Né più né meno dell'Italia, nozione geografica del Metternich mezzo secolo prima. Lo scatenarsi degli imperialismi finì per affossare l'idea di Europa, togliendole ogni vigore unitario che non fosse quello genericamente civile e morale (e anche qui con parecchie esitazioni e addirittura negazioni). Il razzismo, infine, spezzò ciò che rimaneva dell'antica unità. Nonostante questo drammatico precipitare e disfarsi di realtà e di valori, il fuoco dell'Europa – la sua idea – piccolo ma ricco di calore si è mantenuto sotto le ceneri di quella che era stata per tanti anni la realtà europea. E quando, con la seconda guerra mondiale, un pericolo, non certo minore di quello persiano per la Grecia antica e di quello turco per l'Europa quattro-cinquecentesca, ha messo in forse l'esistenza stessa dell'Europa moderna, è stato da questo fuoco sotto le ceneri che ha – come Anteo dalla Terra – avuto origine la grande fiammata rigeneratrice da cui è risorta l'unità morale, civile, culturale, economica dell'Europa. (Da Appendice. L'idea di europa - Tratto da «Le trasmissioni del Terzo Programma» per il secondo trimestre 1960, Rai Radiotelevisione Italiana) L'atteggiamento dell'Inghilterra verso il nostro processo unitario può essere esaminato, indubbiamente, da più punti di vista. Innanzitutto, dal punto di vista dell'azione politico-diplomatica del Governo, del Foreign office, cioè, e da quello più generale dell'opinione pubblica britannica. I due punti di vista sono innegabilmente diversi: ognuno di essi ha caratteristiche e peculiarità ben precise; ognuno di essi corrisponde a ben precisi stati d'animo, a ben precise esigenze pratiche e psicologiche. Eppure, a un esame non superficiale, queste due linee di sviluppo e di evoluzione dell'atteggiamento dell'Inghilterra verso il processo unitario ottocentesco italiano, appaiono, in ultima analisi, «convergenti e reciprocamente cospiranti», come ha giustamente notato un'attenta studiosa dei rapporti tra Italia e Inghilterra nel Risorgimento, Emilia Morelli. Perché, se è vero che studiando i rapporti italo-inglesi durante il Risorgimento non si devono confondere le espressioni di solidarietà umana – che i privati offrivano a chi cercava asilo nell'isola – con la politica governativa, non si può negare, tuttavia, conoscendo l'enorme importanza che possiede in Inghilterra l'opinione pubblica, che questa non avesse peso nelle decisioni del Foreign office. (...) Abbiamo visto come l'atteggiamento degli stranieri verso l'Italia nel Risorgimento sia stato in larga parte determinato o almeno influenzato da considerazioni di ordine religioso. Il peso di queste considerazioni fu particolarmente potente in Francia. Si può dire che esso determinò sempre l'atteggiamento dei francesi rispetto alla nostra causa nazionale. Indubbiamente la politica dei governi che si succedettero a Parigi in quei decenni fu determinata quasi sempre da considerazioni meramente politiche e di «potenza». Dietro tali considerazioni, agì però sempre potentemente la divisione dell'opinione pubblica francese, della Francia tout court, tra liberali e cattolici. La causa nazionale italiana non poteva prescindere da Roma: tutto il suo corso, in ultima analisi, finiva per sfociare lì. E sulla questione romana l'opinione pubblica francese fu divisa in modo netto: gli ambienti cattolici infatti rifiutarono a lungo di prendere anche solo in considerazione l'idea che Roma potesse essere sottratta al potere temporale della Chiesa ed entrare a far parte dell'Italia. (Dal capitolo: L'opinione pubblica internazionale e l'Unità d'Italia)

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