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De Sica: «Scherzo per restare giovane»

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diDINA D'ISA Nella commedia «Amici miei Come tutto ebbe inizio» di Neri Parenti (da mercoledì distribuito in 500 sale da Aurelio De Laurentiis) Christian De Sica interpreta un personaggio che non esisteva nel cult di Monicelli. Il film girato senza alcun risparmio (De Laurentiis ha sorvolato sulla cifra dicendo che deve fare ancora i conti) tra alcune località toscane e gli Studi di Cinecittà continua la saga di «Amici Miei» (1975), con tanto di supercazzola finale, spostandola temporalmente nel '400, alla corte di Lorenzo de' Medici. Questa volta a mettere mano alle zingarate, in una Firenze sconvolta dalla peste, sono Duccio Villani di Masi (Michele Placido), l'oste Cecco (Giorgio Panariello), il cerusico Jacopo (Paolo Hendel), il nobile più che decaduto Manfredo Alemanni (Massimo Ghini) e l'aristocratico doc Filippo (Christian De Sica). De Sica, si è divertito nei panni di un aristocratico d'altri tempi? «Qualcuno ha notato che il mio personaggio è un nobile che ricorda molto nelle movenze gli aristocratici squattrinati portati sullo schermo da mio padre Vittorio. E in effetti, per calarmi in questo ruolo ho pensato a papà e mi sono chiesto come avrebbe interpretato un aristocratico costretto ad andare in giro con le scarpe bucate. Il fatto che il mio personaggio non esista nel cult monicelliano mi evita quei paragoni che, alla fine, sono sempre fastidiosi». Alla vigilia dell'uscita di «Amici miei - Come tutto ebbe inizio», arriva a quota 90 mila iscritti il numero degli utenti internet che hanno manifestato la propria intenzione di disertare le sale, nel rispetto dei vecchi film di Monicelli. Che ne pensa? «Uno dei punti in comune con "Amici miei" di Monicelli non è solo nello spirito della goliardia e della zingarata. Il significato vero delle azioni dei protagonisti è lo stesso dell'originale, ossia farsi beffa della maturità, dell'età adulta. Attraverso gli scherzi cerchiamo di prolungare lo stato della fanciullezza, esorcizzando così la morte, la malattia, la paura di invecchiare. E poi anche il fatto di averlo girato nel '400 ci allontana, in senso bonario, dalla realtà di oggi. Se il film fosse ambientato ai giorni nostri, di sicuro, avremmo a che fare con scherzi orribili, sanguinolenti e violenti. La goliardia sembra ormai un gioco di altri tempi». Quale film di suo padre Vittorio rappresenta a suo parere meglio di altri il senso unitario dell'Italia? «Dopo il periodo dei telefoni bianchi, autori del Neorealismo come Zavattini, Rossellini e Vittorio De Sica sentivano la necessità di dire la verità sul nostro Paese. Quella è stata una grande rivoluzione culturale. Tra i film di mio padre più legati all'Unità, citerei "Ladri di biciclette", "Umberdo D", "Il tetto" e "L'oro di Napoli"». Come festeggerà l'Unità d'Italia? «Mi hanno regalato una sciarpa tricolore con tanto di stemma sabaudo, che già indosso. E poi - perché no? - mettere una bandiera alle finestre è sempre un gesto popolare e di grande amore per il nostro Paese». Quali sono gli scherzi più divertenti che ha fatto, visto o subìto? «Sul set, Panariello e Ceccherini presero un caffè a Firenze vestiti con i costumi del '400. Alcuni giapponesi chiesero di fare delle foto con loro in cambio di 50 euro e loro accettarono offrendo poi il caffè a tutti. Quando ero al Nazareno, invece, feci dire una messa in suffragio di mia nonna morta, che in realtà godeva di ottima salute. Di scherzi mio padre ne faceva tanti, ma a noi figli non era consentito ripeterli, almeno non nei suoi riguardi».

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