Muti rilancia senza retorica il Verdi del Risorgimento
Ilrischio è proprio di far apparire deforme, abnorme, eccentrico quello che invece dovrebbe essere intimo, essenziale, condiviso. Forse proprio per questo il Nabucco celebrativo del Centocinquantenario dell'Unità italiana diretto da Muti, ieri sera in scena in pompa magna al Teatro dell'Opera in attesa della recita di rappresentanza di giovedì, può dirsi riuscito. Nei tanti Nabucco visti in giro per l'Italia o per i teatri europei l'episodio biblico della occupazione babilonese di Gerusalemme appariva tradizionalmente carico di orpelli colorati: monumenti grandiosi, vestiti sovraccarichi, a volte persino carri, lance e corazze. Insomma tutto l'armamentario vieto e frusto dell'opera seria ottocentesca. Ma il Nabucco verdiano non è solo un'opera seria che tratta, come al solito all'epoca, il trito triangolo amoroso (Abigaille a far da intoppo tra i sentimenti della delicata Fenena e del titubante Ismaele), è molto di più: è il ritratto di un intero popolo oppresso dalla tirannide, vessato dalla tracotanza atea di un sovrano blasfemo, che non ama gli uomini e non teme Dio. E questa era la tematica che i giovani patrioti risorgimentali sentivano più vicina alla loro realtà e dunque come straordinariamente attuale. Il crepuscolare Nabucco dell'anniversario, regolato registicamente dal francese Scarpitta, giocava così soprattutto sulla semplicità scenografica, sulla essenzialità minimalista, su pochi elementi ( pannelli mobili o un fondale di nuvole destinate presto ad incupirsi) con le tinte dominanti del grigio e celeste che dipingono il popolo ebreo come dolorosamente sottomesso ma unito. I bagliori sinistri dell'azione restano così piuttosto relegati e confinati nella musica, pennellata da Muti con dovizia di dettagli tra gli accenti eroici e quelli patetici, tra l'affresco corale e il ritratto individuale (stupenda la evoluzione della fiera Abigaille nel suo trascolorare tra vendetta e gelosia). L'orchestra romana come sempre lo segue docile come i topi del pifferaio di Hamelin, dando una bella prova di voglia di riscatto. Al centro del cast un navigato Leo Nucci, che di Nabuccodonosor coglie appieno l'aspetto più profondamente umano nella crisi metamorfica che da insulso tiranno lo muta in miseranda larva umana. Vigorosa, ma alla bisogna fragile, la Abigaille innamorata di Csilla Boross, più evanescente e sfumata la Fenena di Anna Malavasi che si muove in simbiosi col timido Ismaele di Antonio Poli, saldamente prigionieri dei rispettivi ruoli formali il Gran sacerdote di Goran Juric e lo Zaccaria di Dmitry Beloselsky. Una menzione a parte merita il coro diretto da Roberto Gabbiani, che gioca nell'opera un ruolo protagonistico anche se anonimo (magico il Va pensiero di rito). Preziosa come sempre negli ultimi tempi la sua prova. Salve di calorosi applausi al maestro Muti e a tutti gli interpreti hanno siglato la fine della storica serata, in perfetta linea con il new style della nuova gestione capitolina.