L'Italia che vince è la Dolce vita
Intellettuali, per favore, non tirate per la giacca gli italiani e le italiane. Dopo la vittoria di Roberto Vecchioni a Sanremo, un successo preceduto dalla performance di Roberto Benigni sull'inno di Mameli, a sinistra hanno cominciato a rivalutare gli italiani. Sarà che Vecchioni ha vinto grazie al televoto o che Benigni ha fatto il pieno di audience ma stavolta il popolo tv sembra aver scelto bene pure per i nostri intellettuali. Ha scritto, per citarne soltanto uno, Barbara Spinelli su Repubblica: «C'è qualcosa nel successo strappato a Sanremo dalla canzone di Vecchioni che intrecciandosi con altri episodi recenti ci consente di vedere con una certa chiarezza lo stato d'animo di tanti italiani: qualcosa che rivela una stanchezza diffusa nei confronti del regime che Berlusconi ha instaurato 17 anni fa». E ancora, poco più avanti: «A quest'Italia piace Benigni quando narra Fratelli d'Italia. Piace Vecchioni quando canta la memoria gettata al vento da questi signori del dolore». Siccome abbiamo sempre amato gli italiani, nelle loro grandezze e nelle loro cialtronerie, nel loro eroismo e nelle loro vigliaccherie, quando votano per Berlusconi e pure quando scelgono Prodi, anziché alzare il Muro di Sanremo sull'antropologia di un Paese e dei suoi abitanti, preferiamo andarci a riguardare il ritratto sugli italiani vergato, poco meno di 50 anni fa dal giornalista Luigi Barzini, in un volume pubblicato dall'Arnoldo Mondadori editore ed intitolato appunto, Gli italiani. 53 milioni di protagonisti. «Non è possibile scrivere una storia delle idee, delle arti figurative, delle lettere, di quasi tutte le scienze, delle tecniche e di molte altre discipline senza nominare un buon numero di italiani. L'uomo moderno è il risultato di ciò che Cristianesimo e Umanesimo hanno abbozzato, e al trionfo del Cristianesimo e dell'Umanesimo ha contribuito decisamente, anche se in modo dissimile, il nostro genio. Al viaggiatore più distratto non sfugge l'onnipresenza italiana nel mondo: in tutta Europa egli non può sottrarsi alla vista di chiese, di palazzi e monumenti modellati su disegni nostri. Architetti italiani hanno disegnato e costruito edifici e mura del Cremlino e il palazzo d'Inverno a Leningrado, artisti italiani hanno abbellito il Campidoglio di Washington. (...) Gli italiani hanno scoperto l'America per gli americani; hanno insegnato agli inglesi l'arte poetica, gli accorgimenti per governare, la teoria dell'equilibrio delle forze, le astuzie bancarie e commerciali. Ai tedeschi i primi elementi dell'arte militare e l'impiego delle artiglierie; ai russi la recitazione e la danza classica; l'arte culinaria ai francesi e la musica a quasi tutti». Eppure, s'arrovella il Barzini, nonostante questa immensa grandezza spirituale e geniale spesso i grandi italiani non riescono ad essere profeti in patria. «Machiavelli - scrive - fu tenuto lontano dagli affari importanti; Vico visse in miseria; Galilei fu processato per ostentazione scientifica. Cercarono pace lontano dalla patria l'Alighieri, Foscolo, Enrico Fermi» eccetera, eccetera. Non sembra essere il caso, questo del nessuno profeta in patria, di Vecchioni o di Benigni a cui il pubblico, la gente, ha tributato e tributa grandi successi. Perché l'Italia - e su questo ragiona il Barzini - prevede la coesistenza di due paesi, dissimili l'uno dall'altro: siamo, in fondo, la culla della civiltà e la terra sfortunata delle vicende storiche che ci hanno attraversato per secoli. «La penisola - sottolinea - è stata invasa più spesso di ogni altra terra in Europa» e «il catalogo delle sventure nazionali è interminabile e notissimo». Per questo, nella nostra memoria convivono insieme Palermo e Milano, Garibaldi e Mazzini, Mussolini e Cola di Rienzo, Michelangelo e Savonarola, san Francesco e Cesare Borgia, miseria - per citare uno dei più grandi attori del nostro Paese, Totò - e nobiltà. Nella parte finale del libro di Barzini c'è un passaggio sull'essere italiani che dovrebbe essere letto nelle scuole (meglio Barzini di Benigni, che ne dite?), un ritratto senza sconti, ma anche senza manicheismo antropologico. «L'illusione - questo il brano - che l'Italia crea è un senso di sollievo e liberazione. I paesi che credono nella disciplina, nell'amministrazione meticolosa della giustizia, nella necessità di coltivare inflessibili virtù morali, nell'istruzione delle masse, nella conquista della gloria militare, nella necessità di accumulare, distribuire e amministrare con diligenza la ricchezza, sia che davvero realizzino i loro ideali o si limitino semplicemente a rispettarli, possono essere degni di stima ma di rado sono divertenti (...). Nel cuore di ogni uomo, ovunque egli sia nato, quali che siano l'educazione e i gusti v'è un angolo italiano, una parte di lui che trova l'irreggimentazione molesta, i pericoli della guerra spaventosi, la severità morale soffocante, quella parte che ama l'arte decorativa, frivola e divertente, ammira eroi solitari più grandi del vero e sogna una liberazione impossibile dalle restrizioni di un'esistenza metodica e ordinata». In fondo la dolce vita, inventata da noi italiani assieme ad un miliardo di altre cose meno frivole, beh in fondo potrebbe essere proprio la dolce vita la salvezza del mondo. «L'arte di vivere - chiosa Barzini - quest'arte screditata creata dagli italiani per sconfiggere l'angoscia e la noia, sta diventando ora una guida inestimabile per la sopravvivenza di molte persone. La dolce vita si diffonde in paesi che la disprezzavano e la temevano» e «i piccoli piaceri hanno acquisito un'importanza nuova, i cibi, i vini, una giornata di sole, la cortesia, le belle donne, la sconfitta di un rivale e la buona musica». Per tutto questo, dunque, viva gli italiani.