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Lo scrittore a Roma per presentare il suo nuovo romanzo

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Unoche il Continente Nero lo conosce, Smith, visto che si tratta di un "afrikaner" doc (nato in Rhodesia nel 1933, è cresciuto e ha studiato in Sudafrica), e che, di libro in libro, da un'avventura all'altra, si è piazzato tra i narratori più letti in tutto il mondo, nell'eletta e invidiatissima schiera di quelli che i romanzi non li vendono a migliaia ma a milioni di copie perché capaci di catturare l'attenzione dalla prima all'ultima pagina. E la "La legge del deserto", tra petrolieri ed ereditiere, terroristi e agenti segreti, rapimenti e torture, è la conferma di una ricetta "giusta": l'avventura che scatena l'immaginario più l'attualità con i suoi corollari di eventi imprevedibili (o fin troppo prevedibili) e di timori collettivi in crescendo. L'Africa è qui e Smith la "enfatizza" grazie alla "realtà romanzesca". E tuttavia c'è dell'altro, perché la letteratura costeggia memorie personali e sogni. Chi legge - come chi scrive - ne ha sempre una bella provvista. Così, l'incursione nel "personale" è quasi d'obbligo. Lo facciamo anche noi, con un primo "balzo al cuore": "Le nevi del Kilimangiaro"… Chissà perché quel titolo mi suggestionava tanto. Eppure, scolaretto delle elementari, non sapevo nemmeno dove fosse il Kilimangiaro. E davvero non sospettavo che si trattasse della più alta vetta africana. Ma come? La neve in Africa? Ma non c'è sempre e dappertutto il sole? Mio padre mi portò a vedere il film, che sventolava fior di attori hollywoodiani: Gregory Peck, Susan Haward, Ava Gardner. La storia - uno scrittore innamorato della caccia va in Africa, si ammala gravemente e ripercorre le sequenze della sua vita e dei suoi amori - mi parve "bella" e mi commosse. Ora, sul "Morandini 2011" (Zanichelli) leggo un giudizio "tranchant": "Un budino dolce innaffiato di un liquore di cattiva marca", e quasi ci rimango male. Mi mancano tanto "quel" Kilimangiaro e "quelle" nevi che non ho mai visto. Anche questa, forse, è una forma di "mal d'Africa": un film che fa nascere un mito, un mito che si infila nell'immaginario infantile e non ne esce più. È chiaro che, poi, la "cultura" serve ad "elaborare" e a mettere ogni cosa al suo posto: scopri che quel film è tratto da un racconto di Ernest Hemingway - scrittore e cacciatore innamorato dell'Africa, come della Spagna e di Cuba, insomma del "Sud", dovunque esso sia, ma come sempre è, e cioè ardente, vitale, sanguigno -, che c'è un altro racconto ancora più suggestivo e ancora più amaro, "La breve vita felice di Francis Macomber", con dentro cacciatori, leoni, bufali, passione e morte, e che il famoso "Papa" in "Verdi colline d'Africa" (1935) ha addirittura redatto il diario di un safari. Il "suo" diario: la nativa forza barbarica che va alla ricerca della "natura" e la trova, nei colori più accesi, il rosso, il verde, il blu - ma anche il bianco che acceca: in Africa. Il "mal d'Africa" - nostalgia canaglia! - è l'allentarsi degli impulsi primordiali, la giovinezza che intristisce e si spenge. Il grigio che avanza. Ed Ernest, come è noto, "lo" ammazzò con uno dei suoi fucili da caccia. Mal d'Africa. Per tanti scrittori del Novecento la scoperta del Continente Nero e multicolore è come l'affacciarsi al "primo mattino del mondo". È un altro scenario, un'altra aria. Cielo che abbraccia la terra, terra che inghiotte il cielo, tutti i toni del verde, a distesa. Richiami ancestrali. Potenti, ineffabili. L'innocenza primordiale, pura, fiera e feroce. Ne era consapevole la scrittrice danese Karen Blixen che in "La mia Africa" (1937), evoca gli anni di giovane sposa, in Kenya, alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche qui una "rivelazione": le "lontananze" del Nord che si immergono nel Sud, ricevendone inatteso alimento. E Karen non può se non accarezzare le sue "neiges d'antan" , peraltro così singolari visto che l'evocata "neve" così poetica, così fiabesca, è l'immagine viva di una fattoria in Kenya dove "ogni cosa dava un senso di grandezza, di libertà, di nobiltà suprema". Mille le varianti del mal d'Africa… Su tutte, la "cronaca" allucinata di Ennio Flaiano, storia e insieme leggenda e brandello sanguinante di autobiografia: "Tempo di uccidere", pubblicato nel 1947 da quell'uomo di multiforme ingegno (anche come scopritore di talenti e come editore) che rispondeva al nome di Leo Longanesi. Leo, il terribile Nano di Strapaese (gli altri due erano Mino Maccari e Amerigo Bartoli), aveva ascoltato Ennio mentre parlava della "sua" Africa, dell'Etiopia dove era andato, insieme a tanti altri, a conquistare l'Impero. E dove aveva incontrato (e amato?) un'indigena. Quelle parole "dovevano" - Leo glielo impose - diventare un libro. Dove dell'Africa c'è tutto. Innocenza e colpa. Noi e loro. In un continuo scambio tra il caso e la causa, la vittima e il carnefice.

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