Max Frisch aspetta il ricordo di Roma
diANDREA DI CONSOLI Ricorre quest'anno un doppio anniversario per il grande scrittore svizzero Max Frisch. Si festeggia infatti, non solo a Zurigo - sua città natale -, ma un po' dappertutto, un centennale (era nato nel 1911) e un ventennale (è morto nel 1991). Anche Roma, a ben pensarci, dovrebbe sforzarsi a ricordarlo in quest'occasione, perché Frisch visse a Roma dal 1959 al 1965 (in via Margutta), dove si consumò il suo difficile e complicato rapporto sentimentale con la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann che, giovanissima, morì appena otto anni dopo in via Bocca di Leone a causa di una sigaretta che incendiò il suo appartamento. Del suo difficile rapporto con la poetessa carinziana, Frisch diceva di essere sì, probabilmente, troppo svizzero (troppo razionale, cioè), ma di non capire come una persona potesse svegliarsi mai prima di mezzogiorno, e non rispondere per settimane alle lettere ricevute; al contrario, l'amore per Frisch, che s'interruppe nel 1963 fu, per la Bachmann, "un dolore dal quale Ingeborg non sarebbe mai guarita" (Werner Henze). Max Frisch, prima di diventare uno scrittore ancora immerso nel clima antimoderno della letteratura germanica del tempo (anni '30), fu un architetto (era figlio di architetto), e un giornalista (Neue Zürcher Zeitung). Le opere che però gli valsero le prime attenzioni della critica, ancor prima di conoscere Friedrich Dürrenmatt, nel 1947, furono "Fogli dal tascapane" (1939, disponibile nelle edizioni Casagrande) e "Sono, ovvero un viaggio a Pechino" (1945, disponibile da Marcos y Marcos). Il primo libro importante di Frisch ("Fogli dal tascapane", appunto) si lega curiosamente al suo ultimo, "Svizzera senza esercito? Una chiacchierata rituale" (Casagrande, 1989): due libri sull'esercito svizzero e sulla guerra visti dal punto di vista della Svizzera, due temi cruciali della narrativa e della pubblicistica politica di Frisch. Il tema del filisteismo e delle complicità filonaziste e antisemite della Svizzera furono ampiamente affrontate da Frisch, per esempio nel dramma "Andorra" (1961); ma costante fu anche il suo impegno per un'apertura della chiusa mentalità svizzera, tanto che nel 1965, quando centinaia di migliaia di italiani, soprattutto meridionali, affollavano i cantieri e le periferie delle città svizzere, scrisse un articolo memorabile, e ancora molto citato, intitolato: "Cercavamo delle braccia, e sono arrivati degli uomini". La vera fama internazionale, comunque, gli venne dal teatro - tra le opere rappresentate in ogni dove, oltre "Andorra", ricordiamo almeno "Don Giovanni o l'amore per la geometria" (1953) e "Biografia" (1968). E' un teatro, quello di Frisch, demistificante (Brecht) e grottesco (Ionesco), spesso costruito intorno al tema a lui assai caro dell'identità fluttuante e doppia (tema di alcuni suoi romanzi di successo, come "Stiller", pubblicato nel 1954, e ora in Mondadori, e "Il mio nome sia Gatenbein", pubblicato nel 1964, e disponibile nelle edizioni Feltrinelli). Ma il vertice assoluto della sua narrativa lo si ha nel 1957 con la pubblicazione di "Homo faber" (Feltrinelli). In quel romanzo Max Frisch raccontava il viaggio di Walter Faber, cinico e distaccato tecnico in aiuto ai paesi emergenti che, da New York, si dirige verso il Sudamerica. Il romanzo è una catena di eventi casuali e inesorabili: Faber fa di tutto per perdere l'aereo, ma non ci riesce, poi, una volta presolo, l'aereo fa un atterraggio d'emergenza in un deserto miasmatico e torrido, dopo il quale Faber incontra Sabeth, una giovane ragazza "con la coda di cavallo bionda" di cui s'innamora, dopodiché scopre tardivamente l'incesto (Sabeth è sua figlia), e fa un viaggio sentimentale per l'Italia fino ad arrivare in Grecia, dalla prima moglie (Hanna, madre della ragazza), dove Sabeth viene morsa da un serpente, e dove muore. Sono anche da citare, infine, per una più completa bibliografia frischiana, l'ironico "Guglielmo Tell per la scuola" (del 1971, in Einaudi), "Montaul" (del 1975, Einaudi) "L'uomo dell'olocene" (1979, in Einaudi) e la serie dei Tagebuch (diari), tutti pubblicati da Feltrinelli. Ma è assolutamente necessario che anche Roma lo ricordi.