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La carica di Benigni

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Benigni arriva a cavallo

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L'unico che avrebbe potuto disarcionarlo era il cavallo Ombra, che ha avuto uno scarto sotto il palco, curiosamente all'altezza di Masi. Altro che «tono istituzionale». La carica di Benigni è stata inarrestabile, a spada sguainata contro Berlusconi. Quando scende di sella è già pronto per l'attacco: «Anche perchè di questi tempi ai cavalieri non va tanto bene». Addio par condicio: «Centocinquant'anni? L'Italia è una bambina, anzi una minorenne». A briglie sciolte, subito. «La storia delle minorenni è nata qui a Sanremo, quando la Cinquetti cantava "Non l'età"». E ancora: «Mameli era barbuto, ma aveva vent'anni. Era minorenne». E via al galoppo: «Silvio Pellico, "Le mie prigioni", un libro memorabile, chissà quanto tempo ne passerà prima che qualcuno ne scriverà un altro così». Cavour? «Grande statista, prima di finire rovinato per lo scandaletto con la nipote di Metternich». A tratti, la citazione è diretta. «Le procure ci hanno messo quattro mesi per capire se Ruby era la nipote del presidente egiziano? Bastava cercare sull'elenco uno che si chiamava Mubarak Rubacuori». Masi, in prima fila, è una statua di gesso. Benigni lo sfida: «Ci sono due persone che di questi tempi telefonano spesso, uno è in sala». E perfido: «Cambia canale, vai su Raidue. Nooo, lì c'è Santoro». L'allusione è continua: «Mazzini e Garibaldi sono morti poveri, ma hanno arricchito enormemente gli italiani». Ma davvero a Raiuno ci si aspettava un Benigni a fari spenti per una lectio brevis senza l'ombra del premier? La par condicio è uno zuccherino: «Quel verso dell'inno, "dov'è la vittoria", sembra scritto dal Pd». Però Roberto è davvero un funambolo dell'arte retorica e dell'incantesimo storico. Dà l'impressione di saperle tutte, il Benigni Bignami, e a tratti è davvero torrenziale. Anche quando spiega a Bossi che «a essere schiava di Roma non è l'Italia, ma la vittoria». Mameli? Sì, ma si passa per Scipione, l'impero romano, gli Orazi e Curiazi, la battaglia di Legnano, Francesco Ferrucci, Balilla, e poi certamente i patrioti che hanno difeso «il corpo saccheggiato della Patria, il corpo più bello del mondo». Vola alto come se recitasse Dante, e tutta la seconda parte fa vibrare di echi davvero risorgimentali la platea dell'Ariston. C'è da sottolineare la grandezza di Churchill, che parlava di vittoria anche dopo una sconfitta. E la bandiera tricolore. E la lingua dell'Alighieri e del Petrarca. Chi volesse attaccarlo polemicamente si troverà in difficoltà: anche se è stato immensamente populista, in certi momenti pedante e ha pescato facile nello sterminato patrimonio storico-culturale del Belpase. Tanto che forse, dopo la quasi commossa intonazione di chiusura dell'Inno di Mameli da parte dell'attore, gli echi delle grasse risate e le frecce infuocate sulle minorenni immalinconiscono. Un grande Paese non dovrebbe aver bisogno di triturare i governanti, per ricordare la propria unicità nella Storia universale. Gramsci e le Iene. Si poteva pensare che per Luca e Paolo fosse una sera di mezzo riposo. Errore. Al mattino avevano detto: «Fare satira dopo Benigni è come girare un film porno dopo Siffredi». E per un po' gi avevamo creduto. I due si erano dedicati a omaggiare Gaber, o a martirizzare Morandi dopo la sigla d'apertura («I mille di Garibaldi? Tu c'eri, e dicevi a loro: "Stiamo uniti"). Poi la miccia accesa: meno di mezz'ora dopo Benigni, eccoli in scena con volti tesi, facce attoriali, toni ieratici. «Odio gli indifferenti...». Cosa sarà mai questa lettura vibrante, senza ombra di sorrisi, a luci basse? A metà del loro testo, in tanti sobbalzano. È decisamente Gramsci. Nientemeno che "La città futura", il numero unico del 1917 preparato per la federazione giovanile socialista piemontese. Parole dure come pietre, accenti severi, destinate a formare gli idealisti italiani negli stessi mesi della rivoluzione sovietica. Alla fine della recitazione di Luca e Paolo la platea appare disorientata. C'è un interminabile attimo di silenzio prima di un applauso di prammatica. E la gigantografia alle spalle dei due conferma: era proprio Gramsci. Non satira, dunque, ma un testo ideologico di un intellettuale scomodo a tutti, letto da pochi, temuto da molti. E allora qui c'è qualcosa che non quadra: è lo stesso Festival della balbettante Canalis, del cazzeggio canzonettaro? È la sera dei toni «sobri e istituzionali» del 150mo dell'Unità d'Italia o dell'87mo anniversario della fondazione dell'Unità di Gramsci? Masi aveva tenuto botta dopo Bignami Benigni, qui la situazione si è complicata d'improvviso. Spazzata via di colpo la sensazione che le due Iene avessero sparato la loro bomba al debutto con "Ti sputtanerò", e che volessero viaggiare di conserva fino al loro ritorno a Mediaset. Dove, contratto alla mano, resteranno per altri sei anni. La nuova Raiuno "satirica" (che nella seconda serata ha tenuto sul piano degli ascolti con un 42,6 di share) può scordarsi un eventuale ingaggio dei due bricconi, che non hanno mai consegnato i loro copioni. Già ad inizio serata Luca e Paolo non si erano lasciati scappare l'occasione di pestare i calli soprattuto a La Russa: «se è diventato ministro lui c'è speranza per tutti», e «grazie per aver parlato pubblicamente bene di noi. Magari la prossima volta non lo faccia: a casa non ci salutano più».

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