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L'acqua di rose del Re Bomba

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Ferdinando II Borbone

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A Gaeta, dall'11 al 13 febbraio prossimi, promosso dal movimento neoborbonico, si svolgerà un importante convegno di studi sul tema "Gaeta e il Sud a 150 anni dalla fine del Regno delle Due Sicilie". Il seguente, immaginario "discorso agli italiani" di Ferdinando II di Borbone è un piccolo contributo a questo evento. Carissimi italiani, lasciatemi esprimere, innanzitutto, il doloroso stupore che mi procura la leggerezza con cui tanti fra voi sogliono ancora oggi definire "borbonici" taluni tratti iniqui della vostra presente realtà. So che i più dotti fra voi sono soliti scusarsi di quest'uso continuando a rinfacciare a me e ai miei avi le tante infamie che ci furono da sempre attribuite dai nostri nemici. E suppongo che alcuni di loro mi risbatterebbero volentieri in faccia persino la somma ingiuria che mi rovesciò addosso il signor Gladstone quando definì il mio regno "la negazione di Dio". Eppure è stato provato da un pezzo che la perfida campagna che quel gentiluomo sferrò contro di me aveva in effetti lo scopo di affrettare il crollo del mio regno per poter meglio promuovere gli interessi commerciali e industriali della Gran Bretagna nel Mediterraneo… Quanto alla supposta spietatezza con cui, intorno al 1848, tentai di soffocare i moti fomentati dai cospiratori mazziniani, guadagnandomi così l'epiteto di Re Bomba, è cosa ormai arcinota che si trattò di una repressione all'acqua di rose, e comunque assai meno violenta della davvero efferata ferocia con cui di lì a poco i miei successori sabaudi schiacciarono a suon di massacri e distruzioni quella lunga guerra partigiana contro l'invasore piemontese che fu detta "brigantaggio". Ma adesso permettetemi di ricordare i motivi per cui credo di potermi definire a buon diritto l'ultimo vero uomo di Stato che il Mezzogiorno d'Italia abbia avuto, nonché, per il mio fiuto nelle faccende industriali, finanziarie e tecnologiche, il sovrano italiano più moderno e illuminato del mio tempo. Quando, nel 1831, salii sul trono delle Due Sicilie, avevo ventun anni. Il paese, dopo il decennio francese, versava in condizioni tutt'altro che prospere. Era l'epoca in cui in tutto i mondo si diffondevano le industrie, le ferrovie, le navi a vapore. Le merci valicavano ogni frontiera e portavano dovunque, nel mondo artigiano, la disoccupazione e la fame. Col ribasso del prezzo del grano, che ormai diventava poco costoso importare da altri continenti, la morte arrivava anche nelle campagne. Ebbene: in quei difficili anni io mi votai alla causa della difesa del mio paese ottenendo in molti campi splendidi risultati. Ne ricorderò solo alcuni. Creai una grande flotta mercantile (la seconda del tempo a livello mondiale, subito dopo quella inglese). Inaugurai la più importante officina meccanica dell'Europa continentale. Costruii la prima ferrovia italiana. Feci entrare in servizio di linea il primo battello italiano a vapore. Volli la creazione di una linea telegrafica diretta fra Napoli e Palermo. Feci progettare e costruire il primo ponte sospeso in Europa continentale (il "Ponte Real Ferdinando" sul Garigliano, a catenaria di ferro). Incoraggiai ogni tipo di manifattura. E alla Mostra Universale di Parigi l'industria napoletana si collocò al secondo posto mondiale. Infine durante il mio regno (1831-1859) il paese rifiorì anche culturalmente. Si aprirono nuove scuole. Napoli ospitò il primo convegno scientifico tenutosi in Italia. La sua università diventò una delle più prestigiose del mondo, nonché la più grande d'Italia. Insieme a Palermo, Catania e Messina, il mio regno contava 11.000 studenti: il doppio di tutta l'Italia restante, che ne contava meno di 5.000. E tutto questo fu reso possibile anche dall'efficace sostegno di una banca di stato - il Banco delle Sicilie - che faceva girare un volume di carta bancarie cinque o sei volte più ingente di quello che circolava in tutto il resto d'Italia. Poiché il termine "borbonico", come sinonimo di arretratezza, oscurantismo e ignominia, non colpisce soltanto la mia persona ma tutta la mia stirpe, compresi i miei due grandi avi, Carlo III e Ferdinando IV, nonché quello sventurato giovanetto che fu mio figlio Francesco II, detto affettuosamente Franceschiello, non posso infine sottrarmi al dovere di spendere due paroline anche per loro. Di questo mio figliolo limiterò a ricordare soltanto che in effetti nessuno ha mai misconosciuto la saggezza di cui, giunto al trono appena ventenne, diede prova nei pochi suoi mesi di regno, nonché la nobiltà con cui a Gaeta, giudicata persa la partita, per risparmiare al suo popolo un'ulteriore e ormai vana sequela di pene e di lutti, decise di porre fine alla sua infelice esperienza di ultimo re delle due Sicilie con il fiero e toccante discorso con cui annunciò al suo popolo le ragioni della resa all'invasore.   Sul grande Carlo III credo invece necessario compilare una lista delle meraviglie sbocciate dall'estro creativo di quel grande re: il trasferimento da Parma a Napoli di tutte le opere d'arte della collezione Farnese (che costituiscono da allora uno dei principali richiami dei Musei napoletani); il teatro San Carlo (che fu costruito in soli nove mesi); gli scavi di Pompei e di Ercolano; la Biblioteca Ercolanese; le tre grandi regge di Portici, Caserta e Capodimonte (quest'ultima con annessi il grande parco e la celebre fabbrica di porcellane); l'immenso Albergo dei Poveri (prima grande ospizio-falansterio europeo); la stradina di Persano; la strada della Marinella e del Chiatamone; la piazza del Mercatello; il quartiere di Pizzofalcone; il molo e il porto; l'Immacolatella; il quartiere della Cavalleria alla Maddalena; il forte del Granatello; il restauro dei porti di Salerno, Taranto e Molfetta; la sistemazione del litorale di Mergellina e di Posillipo; la costituzione di un esercito e di una flotta nazionali; Il Ritiro delle Donzelle Povere dell'Immacolata Concezione; il Ritiro di Santa Maria Maddalena; i monasteri delle Teresiane a Chiaja e a Pontecorvo; quello delle Carmelitane a Capua; l'istituzione di consolati e monti frumentari - eccetera eccetera. Infine, sul povero Re Lazzarone, mi limiterò ad abbozzare un antifrastico elogio di quello che ancora oggi viene considerato il suo massimo crimine. Questo crimine, com'è noto, lo commise lasciando che sua moglie, Maria Carolina d'Absburgo, sorella di Maria Antonietta, e l'ammiraglio Nelson, il genio che aveva contribuito ad abbattere la Repubblica Partenopea perché vi aveva giustamente visto subito un minaccioso effetto dell'espansionismo napoleonico, lo convincessero a mandare sul patibolo i "patrioti" di quel baraccone giacobino in salsa napoletana sostenuto dai fucili e dai cannoni di un'armata transalpina. Ebbene, confesso che a me è sempre sembrato che quelle circa centoventi esecuzioni fossero in larga misura giustificate dal soave sonetto che pochi anni prima quella pretesa eroina di donna Eleonora Fonseca Pimentel, la mitica musa di quella tragica farsa che fu la Rivoluzione Napoletana del 1799, rivolgendosi appunto a Maria Carolina, che l'aveva un tempo onorata della sua benevolenza ammettendola a corte e invitandola persino a declamarvi delle odi in onore del re, dopo averle simpaticamente affibbiato gli appellativi di "rediviva Poppea" e "tribade impura", ossia di risorta puttana e di lurida lesbica, le aveva promesso che ben presto anche la sua testa, come cinque anni prima quella di sua sorella a Parigi, sarebbe rotolata ai piedi della ghigliottina. Ecco la gentile poesiola: "Rediviva Poppea, tribade impura, | d'imbecille tiranno empia consorte, | stringi pur quanto vuoi nostra ritorta, | l'umanità calpesta e la natura..." Sono, dovete ammetterlo, versi sui quali credo che nessuno dovrebbe esitare a riconoscere uno strepitoso compendio di tutte le nobili passioni (risentimento, ingratitudine, invidia, ferocia sanguinaria, ipocrisia, grotteschi miraggi utopici, brama di potere e bacchettoneria giustizialista) che si intrecciano e confondono nello spirito giacobino di tutti i tempi.  

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