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Garibaldi

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diMARCO RESPINTI Ogni popolo, ogni Paese, ogni tradizione si regge su un'epica di fondazione, intrisa di «leggende» (di cose, cioè, da leggersi, «buona stampa» che edifica) e irta di eroi. L'Italia non è da meno. Il Risorgimento è certamente il crogiuolo che ha forgiato ciò che il Paese politicamente unificato è oggi, e al suo cuore sta sicuramente Il mito di Garibaldi. «Una religione civile per una nuova Italia» (Sugarco, Milano 2010), come suona il titolo dell'opportuno studio dello storico e consigliere parlamentare presso il Senato Francesco Pappalardo. Titolo, il suo, che vale il migliore dei sound-bite che fanno la fortuna di un pubblicitario. «Mito», «religione civile», «nuova Italia». Il Risorgimento si è retto sull'idea centrale che quel che nella Penisola c'era in mancanza di una unità politica fosse il peggiore dei mondi possibili e che quindi il Paese andasse rigenerato. E siccome i popoli politicamente divisi dello Stivale erano però da secoli uniti da un senso culturale comune tale anzitutto perché figlio di una identità religiosa forte e omogenea (capace pure di produrre una distintiva letteratura nazionale), il cambiamento poteva avvenire solamente attraverso la sostituzione di quell'ethos che teneva divisi politicamente (per accidens) gl'italiani, ma che li accomunava culturalmente in una comunità plurale. Una «religione civile», appunto, di natura politica, che «facesse gl'italiani» finalmente tutti nuovi, sostituendosi al nemico «divisivo». Ecco qui allora Garibaldi, campione di tutto e del contrario di tutto, ateismo, spiritismo, deismo naturalistico e «cristianesimo liberale» (ma chissà che significa: in quegli anni un Lord Acton, «cristiano liberale» non meno e forse più di Garibaldi, si poneva agli antipodi stessi dell'«eroe»). Tutto, basta che fosse contro la Chiesa Cattolica. Bisognava svellere l'unità cattolica degl'italiani per imporre un ordine nuovo, e Garibaldi si diede volontario. Ora, avere paura del libro di Pappalardo non serve; occorre invece misurarsi serenamente con quest'altra faccia mai narrata della Luna. Un'opera, quella dello studioso, insulsamente reazionaria e smaccatamente nostalgica? Affatto. Il cronista apprezzerà in essa il puntiglio della ricerca e l'acribia dei dati, quelli che non debbono mai essere separati dai giudizi ma che se mancano siamo alle solite mere opinioni. Discutere approfonditamente assieme a uno studioso come Pappalardo del volto vero del Risorgimento, senza tacerne nemmeno i lati nascosti o persino inquietanti, significa buttare a mare l'unità d'Italia? Certo che no. Vuol dire farsi tutti un doveroso quanto umile bagno di realismo per non accontentarsi dei mezzucci e delle verità di comodo. Per capirci, prendiamo a esempio la Francia. Nel 1989 i nostri cugini transalpini hanno celebrato il bicentenario del loro mito di fondazione, la Rivoluzione Francese. I Pappalardo d'Oltralpe non hanno risparmiato nemmeno i colpi al cuore. Cito per tutti solo gli studi sconvolgenti dello storico Reynald Secher sul genocidio giacobino della Vandea (il primo della storia, che, rimosso dalla memoria collettiva, ha permesso il prodursi degli altri) e l'onda lunga del revisionismo serio approdata a «Le livre noir de la Révolution Française», diretto da Renaud Escande (Cerf, Parigi 2008). In Francia se ne sono insomma date di ogni (accademicamente e mediaticamente parlando), ma ne sono usciti in piedi. Una nazione. Con il pregio di un poco di chiarezza in più. Sono sopravvissuti i francesi, volete che l'Italia non sopravviva a Pappalardo?

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