di MARCO PATRICELLI Via il suffisso internet «.pl» dai musei attivi negli ex campi di sterminio nazisti sul territorio polacco.
Daanni la Polonia cerca in tutti i modi di scrollarsi di dosso la grossolana semplificazione che porta troppo spesso a scrivere «lager polacco», aggettivando una realtà sinistra e criminale alla collocazione sul territorio. È puntuale l'opera di intervento delle rappresentanze diplomatiche nel correggere quest'errore ogniqualvolta appaia sui giornali e sui libri. È accaduto anche di recente in Italia, in occasione della celebrazione del Giorno della memoria. I polacchi hanno sostanzialmente e storicamente ragione nel rifiutare l'etichetta e a volersene liberare, a partire dal sito internet di Auschwitz, che dovrà avere il suffisso «.eu». E così Majdanek, Sobibor, Chelmno, Belzec: una lunga teoria. Le ragioni addotte sono molteplici e logiche. La Polonia, come entità statale, non esiste più quando parte il programma di costruzione e di apertura dell'arcipelago concentrazionario nazista. È vero che il Paese dell'aquila bianca è stato battuto sul piano militare, ma non si è arreso ed esiste un governo in esilio che continuerà la lotta prima in Francia poi in Gran Bretagna. Smembrata in due in esecuzione del Patto Ribbentrop-Molotov e con l'ingresso delle truppe sovietiche il 17 settembre 1939 nei territori orientali (che Stalin considerava parte della Bielorussia e dell'Ucraina), la Polonia viene poi divisa in tre in base agli accordi Berlino-Mosca e ai due decreti di Hitler del 9 e 12 ottobre. Una parte della Polonia (quella con presenza tedesca o considerata germanizzata o germanizzabile, come la Posnania, la Pomerania e la zona di Lodz) viene direttamente annessa al Reich; un'altra (con i distretti di Varsavia, Lublino, Radom e Cracovia che ne è la capitale) diventa Governatorato generale affidato ad Hans Franck che si insedia il 26 ottobre. A una trentina di chilometri da Danzica è stato già aperto, col lavoro forzato dei polacchi, il lager di Stutthof. Auschwitz verrà realizzato nella primavera del 1940, partendo dagli alloggi di una brigata di cavalleria. Diventerà la «fabbrica dello sterminio» per antonomasia, fagocitando nell'orrore uomini, donne e bambini. Nei nomi c'è anche la chiave di lettura che dà ragione al punto di vista polacco: sui libri e nel parlare comune si utilizzano i toponimi tedeschi Stutthof, Auschwitz e Birkenau, e non quelli originali Sztutowo, Oswiecim e Brzezinka. I primi a esservi rinchiusi sono i polacchi, la cui sorte aveva persino intenerito Mussolini il quale aveva scritto a Hitler che quel popolo fiero era stato sì «vinto» ma non meritava di essere trattato come «schiavo». Non riceverà mai risposta. Gestapo e Nkvd, almeno fino all'Operazione Barbarossa, fileranno d'amore e d'accordo nel perseguitare e sterminare la resistenza polacca, che manterrà ossatura e organizzazione dell'esercito regolare e conterà circa 400.000 combattenti, oltre a un esercito che si batte all'estero al fianco degli Alleati agli ordini del governo in esilio. Uomini e donne. Erano ufficiali polacchi Witold Pilecki e Jan Karski. Pilecki informerà per primo il mondo su cosa fosse Auschwitz, con un rapporto fatto trapelare dal lager nel novembre del 1940 e giunto a Londra, via Stoccolma, nel marzo 1941. Gli Alleati sapevano, quindi, e sapranno della «soluzione finale» dai successivi rapporti di Pilecki che si era offerto volontariamente per una missione impossibile: essere rinchiuso ad Auschwitz per far conoscere all'esterno quel che accadeva nel campo e creare una rete di resistenza. Se i rapporti di Pilecki vennero considerati «esagerati» (ma noi oggi sappiamo essere completamente aderenti alla realtà), Karski informerà persino Roosevelt sulla Shoah, ma non sarà creduto. Neppure dagli ebrei americani, così lontani dalla fornace dell'olocausto. La Polonia annovera oggi circa 6.200 «Giusti tra le nazioni»: nessun popolo ha dato un contributo così grande a sottrarre vittime innocenti alla ferocia razziale nazista. È quindi ampiamente condivisibile l'atteggiamento polacco nel voler scindere la realtà dei campi nazisti da quella territoriale. A nessuno in Italia, parlando della Risiera di San Sabba vicino a Trieste, verrebbe in mente di scrivere o dire «lager italiano». Anche in questo caso la storia arriva in soccorso: quando i nazisti aprirono il campo di concentramento, quella non era neppure Italia, visto che dall'11 settembre 1943 era stato strappato un lembo del territorio nazionale ribattezzato Adriatisches Küstenland. Le parole sono pietre. E a Varsavia la parola «lager» non si coniuga con «polacco».