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Un viaggio alla Gulliver vi seppellirà

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seguedalla prima di LIDIA LOMBARDI Allude a molto altro e parla ai cinici di oggi quel gigante steso a terra e imprigionato da centinaia di fili tirati a mo' di trappola da ometti alti un pollice. È la sarcastica fotografia dell'Europa del diciottesimo secolo. Delle case regnanti e del potere, delle magnifiche sorti e progressive che il secolo dei Lumi magnificava; delle fissazioni assurde della scienza; del crudele livore che anima la razza umana. Ma anticipa il nostro tempo. Un libello contro l'orgia del potere, insomma. Graffiante quanto «La fattoria degli animali» di Orwell. E sottoposto a censura nella Inghilterra di Robert Walpole, in guerra con la Spagna e da sempre dirimpettaia in cagnesco della Francia. E infatti la prima edizione, nel 1726, dei «Gulliver's Travel» fu pubblicata con parecchie omissioni dall'editore Motte, che ne aveva ricevuto il manoscritto da tal Richard Sympson, pseudonimo di Jonathan Swift. Un anno più tardi, nuova uscita, con qualche integrazione generata dalle proteste dell'autore, comunque ancora indolore per il Palazzo. Addirittura con l'aggiunta spuria di un panegirico della regina Anna per bilanciare l'attacco al Primo ministro della Corona. Solo nel 1734 l'edizione del dublinese Faulkner fornì ai lettori il testo completo. Il fatto è che lo «sconveniente» Swift se la ride dei Grandi, per Grandi intendendo i regnanti d'Europa e ciò che rappresentavano. Intanto prende in giro il mito di Robinson Crusoe (pubblicato da Defoe nel 1719), panegirico del buon mercante borghese che civilizza e converte il buon selvaggio (quello di Rousseau) funzionale alla politica coloniale. Ma soprattutto sghignazza delle fazioni politiche che si sbranano a prescindere, per sola bramosia di poltrone. Chi altri sono gli abitanti delle due isole di Lilliput e di Blefuscu, uomini piccoli piccoli, che perdono tempo nella controversia delle uova, ovvero se vadano rotte dalla parte più grossa o da quella più piccola? Swift allude ai francesi e agli inglesi, e anche agli anglicani e ai cattolici. Ma quando rincara la dose e, a Lilliput, s'invischia nelle risse tra il partito dei «tacchi alti» e quello dei «tacchi bassi», noi possiamo trovarci non soltanto i Whig e i Tory, ma pure certi pusillanimi di casa nostra, i sofisti pro domo sua (la casa di Montecarlo?) e le miss pdielline del Parlamento contrapposte alle arcigne «de sinistra», più intelligenti che belle e ovviamente in spartani mocassini. Un vespaio senza logica, Lilliput e quello che rappresenta: sicché sta bene che Gulliver salvi il Palazzo imperiale che brucia spegnendo l'incendio con il gigantesco getto della sua urina. A voler regalare a mister Jonathan il dono della premonizione troviamo nel fantaromanzo anche gli antesignani di certi scienziati sulle nuvole, certi loro studi sul sesso degli angeli finanziati magari con fondi Ue, o i catastrofisti del cambiamento climatico. Chi altri potrebbero essere, trasportati ai giorni nostri, gli abitanti del terzo viaggio di mister Gulliver, allorché l'inquieto medico inglese sbarca nell'isola di Laputa, popolata da begli animi che si dedicano solo alla musica e alla matematica, ma senza capire nulla di come funziona praticamente il mondo, anzi portandolo alla rovina? Ci sono perfino i fissati con il mito dell'eterna giovinezza, i precursori degli ingegneri biologici. Che al «passatista» Swift fanno orrore, augurando egli una naturale, saggia vecchiaia al genere umano. Ma poi è proprio del genere umano piegato al razionalismo, alla volontà di potenza, alla corruzione, agli intrighi di palazzo che diffida. Così nell'ultima tappa liquida l'homo homini lupus. Il viaggiatore inglese finisce nel posto più strano di tutti, il mondo degli Houyhnhnms, i cavalli che ragionano ma non conoscono il significato delle parole «vero» e «falso», né sanno che cosa sia la guerra. Ci sono anche bipedi, nella loro terra, gli Yahoos (ogni riferimento al motore di ricerca è casuale, Swift non poteva prevedere tanto). Ma sono tanto malvagi che Gulliver, pure buono e giusto, viene visto come un appestato. Non gli resta che tornarsene nella vecchia Inghilterra di Giorgio I. Parecchio a disagio nel conformismo della «modernità». Al punto di trovare ristoro nelle stalle. Tra i leali cavalli.

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