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I Lincei stanno in villa. Sul Tevere

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diLIDIA LOMBARDI La luce radente del tramonto è come un riflettore da set che anticipa l'effetto notte. Scolpisce lassù, nel fregio della villa bianca come un fantasma in ghingheri, la danza degli amorini tra festoni di fiori. Dall'altro lato della via, le finestre d'un palazzo barocco rivelano il salone illuminato a giorno di una biblioteca. La villa è la Farnesina, la biblioteca è quella di Palazzo Corsini. La «visione» nel gelido pomeriggio romano in riva al Tevere - in via della Lungara, che a ogni passo stupisce - l'hanno avuta i professoroni convitati dall'Associazione Amici dei Lincei per la prima delle conferenze del 2011, venticinquesimo anno di attività. Perché Villa e Palazzo sono le ingioiellate braccia dell'Accademia culturale più importante d'Italia. Entrare nel luogo di delizie del potente e ricco Agostino Chigi è come fare un sogno. Di quelli brevi e intensi, perché la «maraviglia» non ha il tempo di estenuarsi in una teoria di stanze e di oggetti. Gli ambienti aperti al pubblico sono cinque. Ma c'è dentro un'antologia cortese del nostro Cinquecento, declinato tra architettura e arte. Con i colori di Raffaello e della sua bottega, di Baldassarre Peruzzi, di Sebastiano del Piombo, del Sodoma. Un'esperienza che dovrebbe coinvolgere non solo i turisti stranieri, che volentieri visitano la villa, ma tutti i romani fieri di appartenere a questa città. L'Accademia dei Lincei l'ha capito e da un anno potenzia le occasioni di apertura ai cittadini, anche con eventi speciali. Visite guidate, la domenica, con musica dal vivo. Anche serali d'estate, con l'apertivo nel giardino. Villa Farnesina si chiama così perché alla fine del '500 fu comprata dal cardinale Alessandro Farnese, che già possedeva, oltretevere, quel Palazzo legato al nome del truce Scarpia pucciniano e alla Ambasciata di Francia. Ma a volerla fortemente fu Agostino Chigi, il banchiere toscano legato a doppio filo con il papato al punto di ricevere da Giulio II della Rovere il blasone che troviamo in mezza Roma: i sei colli sormontati da una stella, accanto alla quercia appunto «della Rovere». Ricchezza, potenza, gloria, dolce vita. Messer Agostino volle reificare tutto ciò nella sua residenza in riva al fiume capitolino. Baldassarre Peruzzi comprese bene il messaggio. Messi dorate, nozze fulgide, identificazione con gli dei, propiziazione della fortuna: questo racconta ogni angolo della Farnesina. Ecco allora quel fregio con gli amorini che la incorona. Ecco il tripudio della loggia, con le cinque grandi aperture sul giardino all'italiana. Raffaello e i suoi disegnano per la volta e le pareti lo sposalizio di Amore e Psiche, che è poi quello di Agostino con la plebea Francesca Ordeaschi. E anche qui l'intreccio di festoni dipinti da Giovanni da Udine crea un Erbolario, un inventario di fiori e frutti dove dominano il mais da poco scoperto nelle Americhe e cento altri allusivi, nella forma, al fallo. Al trionfo pagano di Priapo, che un banchiere stregato dalla dea Fortuna, ancorché «papalino», doveva tenere in massimo conto. Gli astri, l'oroscopo campeggiano nella loggia di Galatea. La ninfa porta di firma di Raffaello. E dietro l'affresco sottostante, sistemato su un pannello dopo il restauro del 1984, il muro nasconde lo schizzo a sanguigna con il quale l'artista di Urbino cominciò a immaginare la bella nereide. La guarda, nel riquadro accanto, un muscoloso Polifemo di Sebastiano del Piombo. E stupisce, in una lunetta, un'enorme testa maschile. Di Michelangelo, si è creduto fino a 25 anni fa. Invece è del Peruzzi. Il quale nella sala attigua ancora si esercita nel fregio. Ma questa volta dipingendo Ercole, in una sequenza di immagini che sembrano muoversi, come nel cinema. Nel piano superiore del Peruzzi trionfa la prospettiva e il trompe l'oeil. Il pavimento di marmo continua negli affreschi sui muri. Simulano colonne di un loggiato. Attraverso di esse, a 360 gradi, scorci di Roma, con le alture del Gianicolo e Porta Settimiana. Ci sono anche i segni della Storia. Graffi sopra il dipinto. La bravata dei Lanzichenecchi. Nel 1527, col Sacco di Roma, bivaccarono nelle stanze di Agostino, morto da 7 anni. «Babilonia», irride uno sgorbio. Ora vale quanto una grottesca dei raffaelleschi.

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